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Intervista Astral Rocks - 11.09.2025
Robert Plant al secolo Robert Anthony Plant, sappiamo tutti chi è quindi ci sta poco da aggiungere nel descriver un gigante come lui.
Plant nasce a West Bromwich, nel West Midlands, il 20 agosto 1948, figlio di Robert C. Plant, un ingegnere civile, veterano della Royal Air Force durante la seconda guerra mondiale, e di Annie Celia Cain, una donna di etnia romanichals (I Romanichal, detti anche “Traveller inglesi” sono un gruppo etnico di origine rom, che arrivò nel Regno Unito nel XVI secolo e si diffuse poi anche in altri paesi di lingua inglese e sono uno dei principali gruppi che compongono il più ampio popolo rom, il cui nome corretto è Romanì).
Nel 1968, contattato da Jimmy Page, entrò a far parte dei Led Zeppelin nel ruolo di voce solista e autore, contribuendo in modo determinante alla nascita dell’hard rock, genere del quale il gruppo è comunemente ritenuto iniziatore. Nei Led Zeppelin Plant militò stabilmente, così come gli altri tre componenti la band, fino al loro scioglimento, sancito nel 1980 dalla morte del batterista John Bonham.
L’eclettismo delle sue influenze musicali, le pose sfrontate che assumeva sul palco e soprattutto il suo timbro vocale estremo, del tutto inedito per l’epoca e capace di assumere sfumature assai delicate o livelli di inaudita aggressività, ne hanno fatto un modello per i cantanti hard rock e heavy metal affermatisi dopo di lui.
L’infanzia di Plant scorreva normalmente fino all’adolescenza, quando rimase letteralmente folgorato dalla scoperta del blues e del rock and roll, generi a cui attinse avidamente sviluppando una devozione per Elvis Presley.
La famiglia non approvava il fatto che Robert coltivasse così intensamente la sua passione per la musica, ma inizialmente non mosse particolari obiezioni; all’età di quindici anni suo padre, ingegnere, lo accompagnava spesso (seppur di malavoglia) al Seven Stars Blues Club di Stourbridge dove il figlio si esibiva con la Delta Blues Band e i Sounds of Blue, proponendo riletture di Muddy Waters (Muddy Waters è lo pseudonimo di McKinley Morganfield, fu un cantautore e chitarrista statunitense, generalmente considerato “il padre del blues di Chicago”, è anche il padre dei musicisti blues Big Bill Morganfield e Mud Morganfield e altri grandi classici del blues).
La situazione nella famiglia Plant si fece tesa l’anno dopo Robert quando comunicò alla sua famiglia di voler abbandonare il tirocinio avviato solo due settimane prima presso uno studio contabile per inserirsi a tempo pieno nella scena blues delle Midlands.
Robert lasciò la famiglia a soli diciassette anni incrementando considerevolmente la sua attività militando in un gran numero di gruppi di Birmingham tra cui i New Memphis Bluesbreakers e i Black Snake Moan.
Nella prima metà del 1968 il chitarrista Jimmy Page era alla ricerca di una voce adeguata al sound che aveva in mente per il suo nuovo gruppo e il nome di Plant gli venne fatto dal cantante Terry Reid, inizialmente contattato da Page allo scopo, il quale gli parlò dell’impressionante carisma di questo cantante dalla voce blues ed estrema che aveva visto esibirsi in un locale di Birmingham assieme agli Hobbstweedle.
Recatosi a Birmingham, Page ebbe modo di assistere alla performance di Plant tanto da rimanerne impressionato tanto che fu l’inizio di una fruttuosa ed epocale collaborazione.
Il 1968 per Plant fu anno molto positivo sia per la nascita della figlia Carmen Jane, nata il 21 ottobre 1968 giusto in quei giorni erano in corso le sessioni di registrazione di Led Zeppelin I e il matrimonio con la sua compagna di origine indiana Maureen Wilson, avvenuto a pochi giorni dalla nascita della loro bambina, il 9 novembre 1968.
Gli impegni col gruppo condizionarono costantemente la vita familiare di Plant, il quale ammetterà a più riprese il suo rammarico per non essere stato un padre presente come avrebbe voluto. Ad ogni modo, questo non impedì a lui e a Maureen di avere un altro figlio, Karac Pendragon, nato il 22 aprile 1971 e così chiamato in derivazione dal nome del guerriero gallese Caratacus.
Ma il periodo d’oro di Plant fu messo a dura prova iniziarono varie battute d’arresto per la sua carriera, la prima fu nel 1974, quando fu costretto a subire un’operazione alle corde vocali per via di alcuni noduli, tanto che l’intervento ebbe delle severe ripercussioni sul suo timbro vocale, riscontrabili già dalla pur eccellente prova del cantante nel disco Physical Graffiti, registrato subito dopo l’operazione; gli effetti si fecero tanto più evidenti con il trascorrere del tempo, da allora la sua voce ha conosciuto un lento e inesorabile declino, immediatamente a livello di estensione e progressivamente anche a livello di timbrica.
Come se non bastasse il 5 agosto 1975 Plant e la moglie Maureen si trovavano nell’isola di Rodi, in Grecia, in vacanza con i figli Carmen e Karac e con la piccola Scarlet, figlia di Jimmy Page, quando furono coinvolti in un devastante incidente automobilistico in cui Robert riportò comunque conseguenze fisiche estremamente serie tra cui la frattura del bacino, questo condizionò radicalmente i programmi dei Led Zeppelin per tutto l’anno successivo all’incidente, portando alla cancellazione dell’intero tour mondiale.
La caparbia volontà di Plant, così come di tutto il gruppo, di riappropriarsi delle sue antiche glorie ricevette il colpo di grazia il 26 luglio 1977, con la morte misteriosa del piccolo figlio di Robert, Karac, riconducibili a quanto sembra a una non meglio precisata infezione, Plant, che quel giorno si trovava con il gruppo a New Orleans per una delle date del tour in corso, sconvolto e attonito dalla perdita si chiuse in sé stesso, meditando un definitivo ritiro dalle scene.
Il 4 dicembre del 1980, a seguito della morte del batterista John Bonham avvenuta un paio di mesi prima, esattamente il 25 settembre, i Led Zeppelin ufficializzavano con una nota stampa il loro scioglimento. Tranne alcuni eccezionali eventi, che si contano sulle dita di una sola mano, quella che per molti è stata la rock band per eccellenza non si è più riunita, non è mai tornata, deludendo moltissimi fan, ma, in questo modo, consegnando ai posteri una storia di integrità con pochi eguali.
Quanto a integrità, Robert Plant, che ormai da 45 anni non è più il cantante dei Led Zeppelin, è da prendere ad esempio.
Una volta chiusa la prima fortunatissima parentesi della sua epica artistica con il gruppo durata poco più di una decina di anni, piuttosto che battere sentieri risaputi si è fatto guidare dalla curiosità e dalla ricerca della qualità musicale mettendosi alla prova con generi lontani dall’hard rock, quali il folk, il blues, il country, seguendo istinto e passione, non si è precluso alcuna strada mantenendo intatto il suo status di leggenda.
Robert Plant è l’unico dei membri dei Led Zeppelin ad aver coltivato con continuità una propria carriera solista dopo lo scioglimento.
A 77 anni, il “dio dorato” continua a interrogare la tradizione e a cercare connessioni con un repertorio spesso lontano nel tempo, ma vicino alla sua sensibilità e alla sua età.
Dopo aver “bissato”, nel 2021, il fortunato sodalizio con la musicista bluegrass Alison Krauss pubblicando l’album Raise The Roof, bissando l’eccellente Raising Sand che nel 2007 suscitò l’entusiasmo di pubblico e critica, ora Plant ha spostato, seppur di un poco, il centro dei suoi interessi musicali pubblicando il 26 Settembre 2025 Saving Grace.
Saving Grace è un disco che è improprio annoverare nella sua discografia solista poiché i Saving Grace, sono il gruppo formato dal batterista Oli Jefferson, dal chitarrista Tony Kelsey, dal polistrumentista Matt Worley e dal violoncellista Barney Morse-Brown che ospita dietro il microfono oltre a Plant anche la cantante Suzi Dian.
Quella con la band britannica dei Saving Grace è una collaborazione che parte da lontano, era infatti il 2019 quando Saving Grace featuring Robert Plant & Suzi Dian si esibirono in una manciata di concerti in Gran Bretagna, da allora non è passato anno, salvo la tragica parentesi del 2020, causa Covid, che il gruppo non si sia esibito dal vivo, sempre interpretando sul palco cover e traditional.
Dopo oltre 100 concerti e 6 anni hanno finalmente trovato il tempo e la volontà di lasciare traccia su album ed ecco, quindi, Saving Grace, un disco che si muove tra cover e traditional e, lo dico subito, è un altro mattone nel solido muro del mito che Robert Plant, album dopo album, sta innalzando.
Il disco scorre con naturalezza tra atmosfere intime e momenti di leggerezza. “Non trovo ragioni per essere troppo serio su nulla”, dichiara Plant, ma non c’è ironia o sarcasmo in questa raccolta di brani scelti a cuore e a sentimento, in cui ogni pezzo è un omaggio sincero agli autori originali.
L’album si apre con “Chevrolet”, un blues tanto sofferto quanto incalzante e deciso, che venne scritto e interpretato nel 1930 da Memphis Minnie e Kansas Joe McCoy col titolo “Can I Do It for You”.
La stessa Memphis Minnie, una delle prime blues woman della storia, che scrisse “When the Levee Breaks”, poi ripresa dai Led Zeppelin con ottimo profitto 40 anni più tardi nel loro quarto album.
Forse vi ricorderete che “Chevrolet” in passato venne pure rielaborata e trasformata da Donovan in “Hey Gyp (Dig the Slowness)”.
“As I Roved Out” è unarielaborazione di un brano folk della tradizione britannica della durata di ben 6 minuti, il racconto dei cantanti si alterna con degli ipnotici e marziali intermezzi musicali, diventa un onirico desert rock, tra percussioni spazzolate e psichedelico rituale à la “Woven Hand”, anche grazie al contributo di Sam Amidon.
“As I Roved Out”, riflette con drammatico realismo il tradimento narrato nel testo, in cui una giovane donna viene abbandonata dal suo amante per sposare una donna più ricca, passando dall’intimità a un grandioso climax degno di una murder ballad.
Qui apro una parentesi su cosa è una “Murder Ballad”, ossia una ballata omicida, un sottogenere della musica tradizionale folk, che narra in modo dettagliato eventi legati a un omicidio, dalla sua preparazione fino alle conseguenze e alla cattura dell’assassino. Il termine si applica a canzoni che raccontano storie di crimini di passione o di omicidi efferati, diventando un filone narrativo tipico del folk anglosassone e ripreso anche da musicisti moderni, come Nick Cave con il suo omonimo album.
Il disco prosegue con una versione trattenuta e misurata, in cui Plant e la Dian offrono il meglio incrociando le loro voci in “It’s a Beautiful Day Today”, canzone di Bob Mosley pubblicata nel 1969, il cui testo sposa il solare ottimismo che si respirava nella West Coast americana di quel periodo, offre delicatezza pastorale.
Dalla psichedelia e dal flower power, si torna al blues, venato gospel, della “Soul of a Man” di Blind Willie Johnson, alla disperata ricerca di qualcuno che possa spiegare l’insondabile anima di un uomo.
Alla metà dell’album troviamo “Ticket Taker”, bella cover del 2008 degli americani Low Anthem, prova che i Saving Grace non guardano solo al passato remoto della musica nelle loro scelte, ma si affidano anche al relativamente nuovo quando una canzone colpisce il loro piacere e la loro immaginazione, qui è Suzi Dian a distinguersi sostenuta con precisione e semplicità dalla grazia della band.
“I Never Will Marry” è un altro brano pescato dalla tradizione ha la maestosità della preghiera.
In “Higher Rock” l’armonica è cosa di Plant, ma è la Dian a fare da voce solista, forse perché la canzone è della poco conosciuta cantautrice statunitense Martha Scanlan.
La loro rivisitazione del gioiello dark della cantautrice Martha Scanlan, “Higher Rock”, combina un’atmosfera country con un’armonica che ricorda John Mayall.
Mentre in “Too Far From You”, dal repertorio della folksinger americana poco conosciuta Sarah Siskind, è Suzi Dian a cantare di una pena di amore per cui non riesce a darsi requie, dove il contrasto tra i trilli di Plant e il languore lamentoso di Dian conferisce grande drammaticità a una melodia impreziosita da arrangiamenti folk-rock.
Stesso trattamento polveroso e visionario troviamo in “Everybody’s Song” e nella conclusiva “Gospel Plough”, dove riecheggia l’anima di “Dead Man” di Neil Young.
“Everybody’s Song” è un brano tratto dall’album dei Low del 2005 “The great destroyer”, un disco già preso in considerazione in precedenza da Robert Plant per l’album Band of joy del 2010, quando addirittura prese a prestito due canzoni: “Silver rider” e “Monkey”.
A chiudere la tracklist è “Gospel Plough”, parimenti a “Chevrolet” e a “Everybody’s Song” pubblicata come singolo in anticipo sull’uscita dell’album. La canzone fa parte della tradizione e venne incisa anche da Bob Dylan per il suo primo album datato 1962, ma al contrario dell’energica versione di Dylan, qui i toni si fanno più tenui e, come suggerisce il titolo, religiosi.
Devo dire che alla fine dell’ascolto dell’album ho notato che in “Chevrolet” di Joe McCoy e “Memphis Minnie” il filo rosso country blues riporta fino alla versione di “When the Levee Breaks” dei Led Zep (poi coverizzata con Krauss).
Le strade di Saving Grace conducono in un’America mitica e perduta, in un album omonimo di cover tra Memphis Minnie, Blind Willie Johnson, i Low e Bob Mosley. Tra country blues, desert rock e ballad delicate, l’ex front man dei Led Zeppelin si reinventa in un lavoro intimo e visionario, dove la band funge da supporto acustico sobrio e ogni brano diventa un omaggio appassionato agli autori originali.
La certezza che c’è sempre una Route 66 all’orizzonte pronta ad accogliere chi desidera guidare fino a notte fonda, senza preoccuparsi di chi siamo e da dove veniamo. È il ritratto di Plant in leggerezza: non è più “l’unico lì davanti, a farsi strada in mezzo a un power trio”, ma il primo tra pari di un gruppo che, più che sorreggerlo, gli fa dimenticare il tempo che passa.
L’ex voce dei Led Zeppelin pubblica un lavoro incentrato sul piacere di suonare e sull’amicizia piuttosto che sulle convenzioni dello show business. Blues, folk, sapori etnici
“È un modo per tornare indietro: vorrei ritrovare quel contatto più intimo che c’era agli inizi con le persone”. “Sono stati anni meravigliosi quelli con i Led Zeppelin, ma è un abito che non mi sta più addosso” afferma Plant sui social.
Il fatto che non compongano materiale proprio non è un ostacolo, poiché trasformano brani originali di altri in qualcosa di fresco e dall’aspetto scintillante e nuovo, integrando blues, bluegrass, musica americana, folk, sapori etnici e qualche tocco rock con sorprendente facilità. Come nel caso di “Everybody’s Song”, una cover del duo Low, singolo dell’album intitolato come il progetto, ovvero “Saving Grace”.
Tutto questo è stato possibile grazie a una band ben rodata composta da Robert Plant alla voce e alle maracas; Suzi Dian alla voce e alla fisarmonica; Oli Jefferson alla batteria; Tony Kelsey alle chitarre e al mandolino; Matt Worley al banjo e alle chitarre; e Barney Morse-Brown al violoncello. Il cantante, che ha compiuto 77 anni lo scorso 20 agosto, sfoggia ancora una voce impeccabile.
Dell’album dei ricordi non fanno parte i Led Zeppelin, ormai una leggenda sbiadita dalle liti, dal tempo e dall’età e dai vari lutti e problemi che Plant ha subito.
Devo dire che la band che affianca Plant ha trovato in lui una stella che poteva far brillare la musica delle radici che ha sempre amato.
E’ bello immaginare che Saving Grace sia l’inizio di un percorso simile a quello di fine carriera di Johnny Cash, il cui spirito peraltro fa capolino qua a là nel disco.
È un album che non rinnega nulla del passato, ma lo rielabora con maturità e coerenza e dimostra che Plant ha scelto di invecchiare senza perdere la sua curiosità, fregandosene del mito.
La sua voce non vive più di virtuosismi, ma della capacità di raccontare e di creare ponti fra tradizioni lontane, un modo per ribadire, che forse la vera grandezza sta nel non smettere mai di cercare.
È dalla fine del secolo scorso, quando ha avuto fine il secondo sodalizio con Jimmy Page, che il fan medio passa il tempo a rimuginare e a indignarsi perché Robert Plant non ha voluto continuare su quella strada, che a molti è parsa come la naturale evoluzione dei Led Zeppelin. O perché si ostina a reinventare i brani della band nei tour che, con regolarità, lo portano in giro per il mondo da decenni. La carriera di Robert Plant, insomma, viene spesso accompagnata in modo ingiusto da una domanda ormai logora: perché non canta e non scrive più come faceva con i Led Zeppelin?
Aspettarsi che un ultrasettantenne riproponga ciò che creava a 20 anni, va da sé, non ha alcun senso. E la cosa è ancora più paradossale nel caso di Plant, che non ha mai vissuto di nostalgia o di auto imitazione ed è stato capace invece di trovare forza nella costante reinvenzione e nel rifiuto categorico di cliché triti e ritriti. Detto ciò, c’è un filo evidente che attraversa tutta la sua storia musicale: dalle esplorazioni acustiche e folk di Led Zeppelin III alla rilettura essenziale del repertorio zeppeliniano con Jimmy Page fino all’intreccio di folk, blues e radici americane che caratterizza i suoi album dall’inizio del nuovo millennio.
Saving Grace non rappresenta quindi una rottura, ma la naturale prosecuzione di un percorso, la testimonianza di un artista che non ha mai smesso di interrogare la tradizione, piegarla al presente e renderla ancora vitale.
Per farla breve, siamo sempre così impegnati a chiederci perché il vecchio Percy si è allontanato così tanto dagli Led Zeppelin da non comprendere che ne ha attualizzato costantemente una parte, quella folk acustica per intenderci. In parte perché, come dice da anni rispondendo alle solite domande dei giornalisti, passare l’anzianità a fare gridolini e allusioni sessuali lo imbarazzerebbe non poco.Ma anche perché lui e Page hanno sempre cercato una sorta di formula alchemica per unire il blues e il folk delle origini, le loro origini britanniche e la musica mediorientale per dare vita a una musica in grado di unire culturalmente più continenti possibili.È come se Plant si fosse allontanato più da Jimmy Page e dai dolorosi ricordi dell’ultima parte della sua vita nei Led Zeppelin che dall’idea di musica che aveva in mente quando, col chitarrista, si recava in Marocco o nei meandri dell’America rurale per carpirne i segreti.
In Saving Grace questa continuità è evidente fin dai primi ascolti.Brani come “Chevrolet” o “Too Far from You” riportano alle atmosfere folk & roots e hanno la stessa urgenza nel riscoprire e rielaborare le radici popolari del rock che Plant aveva quando era un ragazzo che sognava di diventare una star.
Non è un ritorno al passato, ma un modo di riaffermare un’identità, visto che oggi Plant canta con un registro più caldo e narrativo, capace di dare nuova vita a melodie che sembrano senza tempo.Plant è costantemente alla ricerca di connessioni profonde, in questo caso con un gruppo che ha saputo tradurre in musica il silenzio, la fragilità e la trascendenza, elementi che risuonano fortissimi in Saving Grace.Per me Saving Grace è un grande disco, vi consiglio di ascoltarlo.
Da Parte mia è tutto.
Alla Prossima da SonoSoloParole.
Scritto da: SonoSoloParole
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