Radio Febbre
Intervista Steve - 25.06.2025
Shablo, pseudonimo di Pablo Miguel Lombroni Capalbo, è un DJ e produttore discografico argentino naturalizzato italiano.
È nato a Buenos Aires nel 1980 e si è trasferito in Italia da bambino, precisamente a Perugia. Si è fatto conoscere nell’ambiente musicale italiano grazie al suo lavoro come produttore e per la sua capacità di mescolare diversi generi, tra cui rap, gospel, jazz e musica black.
Nel 2025 ha debuttato al Festival di Sanremo con “La mia parola” insieme a Joshua, Guè e Tormento, classificandosi al diciottesimo posto al termine della manifestazione. Con il cantante e i due rapper ha collaborato anche in Spirito libero.
Italo-argentino, ma ha vissuto e lavorato anche in Olanda e ha legami fortissimi con varie altre scene musicali, Pablo aka Shablo è una figura determinante per il rap italiano.
Ha prodotto dischi seminali nella Golden age (o poco dopo), creato etichette, accompagnato progetti, vissuto la fase di apice del genere e ora quella che sembra una riscrittura dei suoi codici.
Il 4 luglio 2025 ha pubblicato il suo quarto album dal titolo Manifesto, recentemente si è esibito in diversi palchi d’Italia con il suo Street Jazz tour 2025.
Il titolo dell’album Manifesto mette insieme il significato artistico e politico di manifesto, inteso come una dichiarazione di intenti e valori, a quello più spirituale del manifesting, cioè la pratica di vivere interiormente come se una cosa desiderata fosse già realtà, fino a vederla prendere forma nel mondo esterno. Così passato e futuro si fondono in suoni e voci che, se da un lato fanno rivivere una tradizione, dall’altro formano una generazione.
Il disco è uscito per Oyster Music / Island Records, la nuova etichetta fondata con Gué, che è una delle voci fondamentali del progetto e suo partner in crime sin dagli esordi. Così come sin dagli esordi c’era Inoki, di cui Shablo ha prodotto i due primi dischi solisti, di culto assoluto.
Manifesto è composto da 17 tracce, con voci che tornano più volte e che rappresentano l’anima vocale del progetto, altre invece spot, a rendere imprevedibile e del tutto hip hop questo progetto. È un disco ambizioso Manifesto, quello con cui Shablo, dopo Sanremo, ha deciso di raccontare appieno la sua visione.
17 canzoni dove spicca la verità, l’esigenza, l’urgenza di buttare fuori idee e concetti in musica che, poi, vengono esaltati da alcune figure chiave italiane dei generi di cui sopra e tutti rendono questo album un’esplosione di gioia per le orecchie, il cuore e la mente.
17 tracce che spaziano tra soul, R&B, rap classico, jazz e persino sfumature Afro beat. La scelta di utilizzare strumenti suonati, fiati e arrangiamenti analogici regala al progetto una profondità sonora rara nella scena attuale, spesso dominata da beat sintetici e formule algoritmiche. In questo senso, Manifesto è assolutamente definibile come un atto di rottura: Shablo non rincorre in questo lavoro la hit virale, ma costruisce un percorso d’ascolto che richiede la giusta attenzione.
Il Producer ha alle spalle più di 25 anni di carriera, periodo sufficiente per capire che non stiamo parlando di un improvvisato che spunta fuori dal nulla per mettere insieme due accordi e quattro cantanti che gli diano uno status.
Shablo è lo status e appare chiaro, ascoltando il suo nuovo album, che l’intenzione fosse quella di ribadirlo e con la giusta dose di “silente cazzimma” (per rubare una battuta e Pam spero mi perdonerà per averle preso in prestito la battuta).
Sanremo, lo scorso febbraio, è stato l’inizio di un percorso che si è trasformato e ha trovato la propria evoluzione giorno dopo giorno senza proclami, senza calcare la mano. Ha lasciato che le cose accadessero e ha fatto bene, arrivando all’Independence day preparato e pronto a tutto.
L’ intenzione di Shalbo è chiara, far capire come si fa musica nel 2025 unendo passato, presente e futuro nel modo migliore possibile e senza fronzoli, senza sovrastrutture e senza tutto quel mondo “plasticoso” che regna sovrano in Italia.
Non c’è dubbio che la sensibilità musicale di Shalbo abbia contribuito a plasmato la scena urban italiana così come la conosciamo ed è questo che viene fuori in Manifesto, dove, oltre al rap, ci sono tutte le radici di Shablo, che poi sono quelle del rap a ogni latitudine: jazz, soul, black music più i generale.
È un disco di street song, come quella sentita all’Ariston, è un disco dove brillano le voci di Tormento (stilosissimo come sempre), Mimì e Joshua.
E’ una dichiarazione d’intenti che celebra le radici dell’hip hop e della musica black, con influenze jazz, soul e R&B, non è una semplice raccolta di brani, ma un’opera coesa che riflette la visione personale del produttore, un “Manifesto” appunto della sua identità musicale.
Un back in the days dal sapore particolare. Dopo quasi nove anni di silenzio Shablo torna a pubblicare nuova musica. E lo fa con un progetto che può avere due chiavi di lettura. Sì perché Manifesto, questo il titolo del terzo album in studio del producer, da un lato si può leggere come un divertissement di un artista che nell’ultimo periodo si è più occupato di faccende manageriali (curando in primis gli affari di Sfera Ebbasta) che del resto, dall’altro si può interpretare come un ambizioso tentativo di conquistare un nuovo target, magari non giovanissimo, ma interessato ad un certo tipo di suono rimasto sotterrato proprio da quell’ondata trap spinta anche dall’argentino stesso.
Impossibile inoltre non rilevare quanto l’ultima fatica di Shablito arrivi poco dopo le uscite di Canerandagio Pt.1, dove Neffa è tornato a reppare, e di 60 HZ 2, istant cult di Shocca sequel del capolavoro datato 2004. Tre indizi che lasciano intendere, per un motivo o per un altro, che qualcosa si sta muovendo anche in una direzione più classica.
In tal senso Shablo, così come fatto in parte da Roc Beats, oltre ai capisaldi dell’hip hop nostrano si è avvalso anche di alcuni esponenti della Gen Z particolarmente amati dalla scena attuale, vedi le Ele-A, gli Ernia e i Rkomi di turno, nella speranza che (almeno) una fetta di nuovo pubblico si incuriosisca al suono delle origini della doppia acca, oltre che a tutte quelle sfumature che ne hanno consentito la nascita. Dentro Manifesto c’è infatti un po’ di tutto, dal soul al funk, passando per frammenti jazz, afro-beat e sapori che ricordano la scena hip hop made in UK degli anni Novanta, più qualcosa di più isolato.
Il viaggio viscerale e atavico di Shablo inizia con “Lost Manifesto” un brano in parte strumentale che omaggio alla sterminata cultura hip hop dove Joshua tra sample, un rullante boom bap e un fiato jazz fornisce un’ottima introduzione al disco. Tra le voci che si susseguono nel disco, spiccano oltre ai sempreverdi Tormento, Guè e Neffa anche le voci cristalline di Mimì e Roy Woods, unico featuring internazionaledel disco.
La cantante vincitrice di Xfactor e il cantante canadese di OVO si incontrano nel RnB chill di “Slow Down” ma Mimì firma anche un’altra traccia da pezzo da novanta: “Meglio Che Mai”, una delle migliori tracce del disco a metà strada tra il soul oltreoceano e le radici RnB italiane.
Sul versante più “rap” a colpire sono Ernia e Neffa nel boom bap di “Welcome to the jungle”, Ele A in “Karma Loop” e l’eterno Noyz Narcos in “The One”.
Il leitmotiv sta nella voce di Joshua, presente in quasi tutte le diciassette tracce dell’album, tutte impreziosite dall’uso di strumenti suonati, fiati su tutti, per un sound solido e quadrato. Tra queste spicca la migliore del lotto “Immagina”, una menzione d’onore all’inaspettata presenza di Inoki, una traccia sociale che affronta la spinosa questione giudiziaria in Italia, tra libertà e falsità, Street rap con un Inoki particolarmente ispirato. “Love me”, con Mimì e Tormento, elegante parentesi tra drum’n’bass e jungle, oltre che “Welcome to the jungle”, interessante crossover generazionale con Ernia e Neffa, autore di una delle sue strofe migliori dal suo cameback.
Tra soli di sassofono, “Karma loop” con Ele-A e Tormento, code con flauto traverso, “Che storia sei?” con Joan Thiele e Nayt, synth funk “Non si può” con Rkomi e flessioni deboli e più sfacciatamente latin, “Mille problemi” con Irama, vero estraneo, per non dire impostore, alla situazione, il disco scorre via in modo elegante e gradevole, anche se mostrando talvolta eccessiva pulizia e delle liriche non indimenticabili. Forse quello che manca è la nota più fumosa, quella po’ sporca, ficcante e ruvida a dare il plus a tutto. Ma resta un tentativo ben riuscito che potrebbe trovare la giusta quadra proprio nella dimensione live.
C’è sempre stato qualcosa di silenziosamente autorevole nel modo in cui Shablo ha attraversato la scena musicale italiana: un passo laterale, mai ostentato, ma capace di influenzare linee estetiche, trend sonori e carriere.
Con Manifesto si concede finalmente un disco che porta il suo nome in primo piano, ma lo fa da regista più che da protagonista. Eppure, nonostante l’apparente coralità, la visione è chiara e personale.
Lontano dalle formule precotte da playlist da producer-album, Manifesto è una dichiarazione d’intenti in forma musicale: l’idea che il rap, o meglio, quella nebulosa chiamata “urban”, possa tornare a una dimensione più suonata, più viva, meno algoritmica, come tra l’altro già da tempo accade all’estero. I brani sono costruiti con una cura quasi artigianale, affidati a una produzione che predilige la materia analogica, gli strumenti veri, le sfumature armoniche. È un disco che suona, letteralmente.
Alcuni episodi marcano bene questa traiettoria: “Che storia sei?” con Nayt, Joshua e Joan Thiele gioca con l’idea di ballad urbana, fondendo melodia e racconto con equilibrio.
“Slow Down”, con Gaia e Roy Woods, guarda invece all’ibridazione internazionale, tra R&B e atmosfere torbide da club.
E ancora “Love Me”, firmata da un ensemble che mette insieme Yellowstraps, Tormento, Mimi e Joshua, si muove in territori sofisticati, dimostrando una certa sensibilità nella scrittura degli incastri vocali.
In “Karma Loop” con Ele A e in “Welcome to the Jungle” con Neffa e Ernia il rap si fa più crudo, più battente, senza perdere quel gusto per l’arrangiamento che distingue il progetto da tanti altri prodotti più grezzi o frettolosi.
Eppure, Manifesto non è un disco risolto del tutto, la sua forza, l’eleganza, la varietà, la qualità sonora, convive con una certa leggerezza tematica. I testi, pur piacevoli e ben interpretati, raramente graffiano. Manca una vera urgenza, un punto di vista che vada oltre il suono, in un momento in cui l’hip hop potrebbe farsi strumento di racconto sociale, il disco resta in superficie, una scelta forse consapevole, forse semplicemente coerente con l’idea di lasciare parlare la musica.
Manifesto è un album intelligente, un disco forse per una élite di palati fini, pieno di spunti, che riesce a posizionarsi in modo originale nel panorama attuale. Non è un disco che cerca l’impatto immediato o la hit virale, ma una proposta stilistica che si prende il suo tempo.
Shablo non cerca di imporre una visione, ma di suggerirla. E in questo gesto misurato, quasi invisibile, risiede la sua forza e il suo “Manifesto” sonoro.
A mio parere tra i brani più riusciti spiccano “Che storia sei?” con Nayt e Joan Thiele, che fonde splendidamente la melodia e la narrazione con l’equilibrio, e “Love Me”, dove la voce di Mimì si intreccia con quella di Tormento in un raffinato gioco di incastri vocali; “Welcome to the Jungle” con Neffa ed Ernia è un crossover generazionale che funziona, mentre “Immagina” con Inoki è un ritorno alle radici street rap, denso di memoria e consapevolezza.
Tuttavia, non proprio tutto fila liscio. Alcuni momenti risultano meno incisivi, quasi sospesi, come se l’album perdesse per un attimo la sua direzione. È il caso di “Mille Problemi” o “Non si può”, dove la scrittura si fa più generica e l’energia cala: questi “momenti morti” non compromettono la qualità complessiva, ma rallentano un ascolto altrimenti fluido e più coinvolgente.
A prescindere, è azzeccata la scelta di coinvolgere Joshua come presenza costante e fondamentale in questo album Manifesto: il cantante italo-congolese ha contribuito alla scrittura, alle melodie e compare in ben 15 tracce, riuscendo ad imprimere una sensibilità artistica che ha dato coesione ed ulteriore identità all’intero progetto.
Con Manifesto, Shablo si stacca di dosso l’etichetta di hitmaker per firmare un’opera che si distingue nettamente nel panorama urban italiano del 2025. Dopo anni trascorsi dietro le quinte come produttore di punta per artisti come Sfera Ebbasta, Rkomi e Achille Lauro, il producer italo-argentino torna con un progetto personale che ha il coraggio di uscire dagli schemi e di proporre una visione musicale autentica, stratificata e, soprattutto, libera.
A proposito, ciò che colpisce maggiormente è la coerenza estetica del lavoro: Shablo agisce da regista più che da protagonista, lasciando spazio agli interpreti ma mantenendo saldo il timone creativo. Anche perché, come avrete capirete ascoltano questo disco, Manifesto non è un disco per tutti, e molto probabilmente nemmeno vuole esserlo: è un long play pensato per chi cerca nella musica un’esperienza, non solo intrattenimento.
Shablo ha avuto il coraggio e la forza di puntare su nomi che, per il grande pubblico, non significano quasi nulla come Joshua e Mimì, un altro talento purissimo, un diamante che abbiamo scoperto e visto crescere a X-Factor, dal futuro più che assicurato, unendoli a delle colonne portanti del rap come Tormento e Guè che appare e scompare ma, anche lui, è un elemento chiave (tra l’altro in grande spolvero qui) mentre tutti gli altri fanno delle comparsate che, però, lasciano il segno.
Joshua è un fenomeno che è esploso proprio in occasione del Festival e proprio grazie a Shablo, è una specie di suo “figliol prodigo” con una voce soul perfetta per la black music, che viene sfruttata benissimo per raccontare questo universo creato in Manifesto in praticamente tutti i brani.
A questi nomi, poi, sono stati affiancati altri big come Inoki e Neffa, alcune certezze inossidabili come Irama, Rkomi, Joan Thiele, Nayt, Ernia e Gaia, e prospetti già di valore come Ele A e Roy Woods.
In definitiva, Manifesto è un album coraggioso, elegante e fuori dagli schemi: magari non perfetto sotto ogni punto di vista, ma comunque necessario. E in un panorama musicale spesso prevedibile, questo è già un grande merito, R&B, soul, rap e verità: Shablo unisce generazioni e stili in un album che lascia il segno.
Pensate a Irama in “Mille Problemi” dove fonde afro-latin, trap’n’b e vibrazioni caraibiche, ma resta leggero come un pensiero d’estate o a Nayt e Joan Thiele nella bellissima poesia e malinconia, bellezza pura cantautorale “Che Storia Sei?”, tutti brani che con altre voci non avrebbero reso per come hanno fatto alla fine.
E poi c’è spazio anche per la rabbia lucida di “Immagina” con Inoki è hip hop militante, mentre “The One” con Noyz, TY1, Tormento è sangue freddo e storia.
La visione che Shablo ha della musica non è solo quella del compositore che crea e offre agli ascoltatori dei prodotti, ma anche quella di chi quei prodotti li deve vendere e far arrivare al maggior numero di persone possibile, per massimizzare gli introiti degli artisti. Negli ultimi dieci anni la sua carriera principale, infatti, è stata dietro i riflettori nella veste di manager e direttore creativo di progetti non suoi, tra i più famosi, come già detto sopra, Sfera Ebbasta, Gaia, Rkomi e Irama. Con Guè invece, che definisce fratello, ha fondato l’etichetta Oyster Music sotto cui è uscito questo album, in cui trova spazio anche il loro affiatamento artistico, in particolare nella traccia “Puoi toccarmi”, presente solo nella versione digitale, che è una rielaborazione di un pezzo presente in “Bravo ragazzo” di Guè uscito nel 2013.
Abituato a mettersi al servizio degli artisti, per questo progetto Shablo non ha accettato compromessi, e come disse in una intervista in Tv “in questo momento erano loro che dovevano comprendere il mio viaggio, non ero io che dovevo piegarmi alla loro estetica musicale per farmi entrare nelle classifiche e vendere delle copie in più”. Avrebbe potuto scegliere ospiti e sonorità che gli garantivano certi risultati. Le tendenze le conosce bene, anche se per come dice, oggi il mercato è molto più imprevedibile, ma seguire delle strategie avrebbe compromesso l’identità del progetto, che è fondamentalmente di natura sperimentale.
Quello che ha fatto Pablo, questo il nome originale che unito alla parola sciabola è diventato poi Shablo, è un’operazione che discograficamente parlando va in controtendenza. È vero che lui può concedersi il lusso di fare musica per una élite, ma è anche l’espressione di una certa lungimiranza. “L’élite non va sottovalutato dal mio punto di vista, a me piace parlare anche a pochi che possano comprendere questo tipo di suono, piuttosto che per forza a tanti che magari non lo comprendono. Non voglio modificare il mio linguaggio per arrivare a più persone in questo caso. In passato l’ho fatto, non è che lo dico come se fosse una vergogna, però c’è progetto e progetto” afferma Shalbodai suoi canali social.
Oggi il mercato è fatto da ragazzi giovanissimi che ascoltano un certo tipo di genere, però c’è tutta una generazione, quella dai 35 ai 60 se vogliamo, che comunque non si sente rappresentato dalla trap o dall’urban.
Il sapore dell’album è effettivamente molto analogico, le note sono suonate da strumenti veri e questo calore è più apprezzato dai nostalgici di epoche passate, che tendenzialmente sono adulti o musicisti, che da novelli appassionati o ascoltatori occasionali. Eppure, la natura multiculturale di Shablo si riflette perfettamente nelle sue produzioni che in questo senso acquisiscono un gusto più internazionale e potenzialmente più accattivante anche per i più giovani. C’è Roy Woods, artista e songwriter canadese parte della OVO Music di Drake e ci sono gli Yellowstraps, duo belga che è andato virale su TikTok e che ha fatto anche un remix con Nelly Furtado.
Che dire, Shablo firma il suo manifesto con il sangue, in un percorso di diciassette tracce e ben quindici artisti diversi presenti tra cui Ele A, Ernia, Gaia, Guè, Inoki, Irama, Joan Thiele, Joshua, Mimì, Neffa, Noyz Narcos, Roy Woods, Rkomi, TY1 e Tormento.
Le influenze sono nette e spaziano dal jazz al funk al soul e al blues, partono da Steve Wonder e James Brown e arrivano a Nelly, Usher e Chris Brown. Shablo ritorna al principio per andare avanti, tra i sample e gli strumenti suonati, tra il boom bap e strofe più mellow.
Ognuno degli artisti presenti in questo disco porta sulle produzioni di Shablo un peso specifico non indifferente.
Shablo fa una magia, in un’esperienza d’ascolto di appena 55 minuti racchiude più di 40 anni di storia e cultura.
Il Manifesto di Shablo non è una dichiarazione di guerra ma di amore, la visione di un producer che intrecciando hip hop, jazz e soul riesce a scorgere qualcos’altro oltre alla fama e al successo: il piacere di fare musica senza vincoli.
In questo senso “Manifesto” è uno spirito libero, dona alla musica un peso ma riesce ad essere leggera da arrivare a tutti.
Shablo secondo me ha scrittoun “manifesto” in nome della cultura, è un gesto, un richiamo per chi nella musica cerca ancora spessore, bellezza, verità. In un panorama che spesso dimentica, Shablo sceglie di ricordare, di suonare, di restare e lo fa con stile, visione e coraggio.
E non è finita qui: Shablo ha dichiarato nei suoi canali social che Manifesto è solo l’inizio di un percorso più ampio, che continuerà con nuovi capitoli, nuovi volti e nuove voci della scena urban. Perché il suo Manifesto, in fondo, è aperto e destinato a crescere.
Beh, che dire a mio parere il disco scorre e si lascia ascoltare alla grande!
Buon Ascolto.
Alla Prossima da SonoSoloParole
Scritto da: SonoSoloParole
today28 Luglio 2025 9 25
Copyright 2025 - RADIO FEBBRE
Commenti post (0)