Due donne, in particolare, hanno segnato la vita di Fabrizio De André: Enrica Rignon detta “Puny”, la prima moglie, che aveva sposato nel 1962, e la cantante Dori Ghezzi, che diviene la sua compagna dal 1975 in poi. E’ con lei che decide di ritirarsi in quella fattoria dell’Agnata in Gallura (Sardegna), che gli ricorda “la Liguria degli anni 40, in cui c’erano più alberi che case, più animali che uomini”, ed è sempre con Dori Ghezzi che vive l’esperienza drammatica del sequestro.
La sera del 27 agosto 1979, la coppia viene rapita dall’anonima sequestri sarda e tenuta prigioniera alle pendici del Monte Lerno presso Pattada, per essere liberata dopo quattro mesi, Dori fu liberata il 21 dicembre alle 23, Fabrizio il 22 alle 2 di notte, tre ore dopo, dietro il versamento del riscatto, di circa 550 milioni di lire, in buona parte pagato dal padre Giuseppe.
Prima, durante e dopo il sequestro, alcuni giornali fanno uscire illazioni e falsità, talune che legano il rapimento perfino alle Brigate Rosse e proprio l’anno del sequestro termina una sorveglianza dei servizi segreti ai danni di De André, considerato un “eversore”.
All’indomani della liberazione, De André fornirà un resoconto pacato dell’esperienza, usando parole di pietà per i suoi carcerieri: “Ci consentivano, a volte, di rimanere a lungo slegati e senza bende… Noi ne siamo venuti fuori, mentre loro non potranno farlo mai“.
Un’esperienza drammatica che segna parte dell’album senza titolo che sarà poi ribattezzato “L’Indiano” (1981), composto ancora insieme a Bubola e griffato in copertina dal ritratto di un nativo americano a cavallo (opera olio su tela del 1909 dell’artista statunitense Remington).
Neanche di fronte ai suoi rapitori De André perde il “vizio” di rovesciare la morale comune su colpevoli e giudici, i malviventi sardi, così, diventano “marinai di foresta” o indiani Sioux, criminali e oppressi al contempo. “Sono stato rapito da una banda di Cherokee, raccontava, che, prima ancora di volere i soldi, voleva dimostrare il coraggio di rapire una persona” e la sede del sequestro diventa il surreale “Hotel Supramonte”, nome in codice usato dai banditi (anche se in effetti non si trovavano sul Supramonte), descritti poi quasi romanticamente nella irresistibile filastrocca di “Franziska”.
L’apertura blues-rock di “Quello che non ho”, scandita dallo shuffle di una chitarra elettrica e accompagnata dall’armonica a bocca, sottolinea le differenze tra i popoli autoctoni e quelli che rappresentano gli “oppressori”, rappresentate dalle cose che gli oppressi, a differenza degli oppressori, non possiedono, un brano potente, incalzante, ai confini quasi dell’hard rock, con una coda avvolgente in cui irrompono anche le tastiere di Mark Harris.
Capolavoro del disco, e suggello a questo ideale connubio tra banditi e indiani, è la struggente “Fiume Sand Creek”, che evoca il massacro di Sand Creek del 1864 che costò la vita a oltre 150 persone delle tribù Cheyenne, il cui accampamento fu attaccato dai soldati del colonnello John Chivington (“un generale di vent’anni, occhi turchini e giacca uguale, un generale di vent’anni, figlio d’un temporale”).
Una strage di cui 136 anni dopo, nel 2000, il congresso americano si scuserà facendo apporre sul luogo dell’eccidio una lapide per commemorare le vittime, una raffigurazione commovente di una strage atroce e insensata.
L’inesauribile vena creativa di De André si arricchisce tre anni dopo di in un progetto tanto ambizioso quanto originale: “Creuza De Mä” (1984) nato dalla collaborazione con Mauro Pagani e scritto integralmente in genovese, “l’idioma neolatino più ricco di fonemi arabi”, è l’inno a quella Genova che per De André rappresentava un piccolo continente a sé, con “il suo sapore di mare, il profumo della sua cucina, ma anche il puzzo del porto e del pesce marcio”, quella Genova che aveva “la faccia di tutti gli esclusi conosciuti nella città vecchia, le graziose di Via del Campo, i fiori che sbocciano dal letame“.
De André, infatti, pur essendo nato da una famiglia borghese, ha sempre prediletto “i quartieri dove il sole del buon Dio- non dà i suoi raggi- le calate dei vecchi moli- l’aria spessa carica di sale- gonfia di odori“, descritti nella “Città vecchia”.
“Creuza De Mä” è un viaggio appassionato nella musica mediterranea, dove gli strumenti della tradizione nordafricana, greca, occitana (dalla gaida macedone alla chitarra andalusa, dallo shannaj turco al liuto arabo) convivono con quelli elettrici in un universo poetico di rara intensità.
Genova si carica di molteplici valenze simboliche, diventa ogni luogo, ogni casa e ogni meta: un vero e proprio “ombelico del mondo”.
Le storie particolari che vi si svolgono assumono valenza universale: le prostitute di “A Dumenega” passeggiano per le vie di ogni città, e dietro ogni angolo di ogni paese c’è una “pittima”.
La title track si apre sui rumori del caotico mercato di Genova, presto affiancati da un assolo di gaida, sorta di cornamusa in uso fra i pastori della Tracia, appena il canto si dispiega sulla semplice melodia, ogni residuo dubbio dell’ascoltatore riguardo alle scelte linguistiche di De André è fugato.
Nel “suo” genovese, la voce di De André diventa ancor più ricca, più espressiva di quanto non lo sia mai stata, e gli ostacoli che il dialetto pone a un’immediata comprensione sono in realtà fonte di infinite suggestioni sonore. “Creuza De Mä” parla del ritorno a casa dei marinai dopo la pesca, ed è carica della rassegnazione di chi è costretto, come i marinai, come Ulisse, a un viaggio senza fine, un viaggio-condanna in cui le soste sono fonte di frustrazione e occasioni per ubriacarsi (“E nella barca del vino ci navigheremo sugli scogli- emigranti della risata con i chiodi negli occhi- finché il mattino crescerà da poterle raccogliere- fratello dei garofani e delle ragazze- padrone della corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare”).
“Jamin-a” è forse la più bella ode a una prostituta che sia mai stata scritta: un ideale proseguimento delle storie narrate in “Via del Campo” e “Bocca di rosa”, ma qui il racconto perde ogni valenza polemica o iconografica. Grazie all’adozione del genovese, De André non teme censure, e affronta il brano con esplicita, cruda, irriverente, irresistibile sensualità: il corpo di “Jamin-a” è protagonista, con la sua “lengua nfeugà“, lingua infuocata, e il “nodo delle sue gambe“, incatena l’ascoltatore in un vortice di suggestione erotica e sonora e la struttura armonica del brano è affidata all’oud e al bouzouki, strumenti a corda di tradizione araba e greca.
Su “Sidun” il canto funebre della madre palestinese è al tempo stesso uno dei vertici dell’espressione poetica di De André e uno dei massimi risultati musicali della carriera del cantautore genovese. “Sinan Capudan Pascià” è la storia (vera) di un marinaio genovese che venne catturato dai turchi e divento pascià per aver salvato la nave del sultano dal naufragio, il ritornello, adattamento di un canto di marinai diffuso in area tirrenica, è un piccolo nonsense con ambizioni da metafisica simbolista.
Le due tracce successive riportano la narrazione e l’atmosfera nell’antica Genova, e danno piena voce a figure di emarginati. La “pittima” ovvero l’esattore di debiti privati per conto terzi, lamenta la sua condizione precaria e pericolosa, rivendicando con orgoglio la “rispettabilità” del suo mestiere meschino.
In “A Dumenega” le prostitute genovesi, relegate nel ghetto per tutta la settimana, in libera uscita la domenica, passeggiano per la città come gran dame, schernite dalla folla ipocrita degli abituali frequentatori dei bordelli cittadini, è bene anche ricordare che anticamente i proventi dei bordelli erano incamerati dal comune di Genova, che con essi ricopriva quasi interamente le spese di manutenzione del porto.
L’ultima traccia, “Da me riva”, è una “ode del distacco”, il pensiero malinconico del marinaio che riparte, ancora una volta, e saluta la propria compagna, rimasta a riva, ormai solo un profilo lontano, controluce.
“Creuza De Mä” è un’opera dalla ricchezza sonora e dialettica sconvolgente, di fatto una pietra angolare dell’allora nascente world music, con quattro anni di anticipo su “Passion” di Peter Gabriel e due anni in anticipo su “Graceland” di Paul Simon.
Intanto, De André collabora con l’altro “guru” della scena genovese, Ivano Fossati, in vari brani (tra cui “Questi posti davanti al mare”) e sposa Dori Ghezzi nel 1989.
Un anno dopo esce “Le nuvole” (1990), in cui si consolida il sodalizio con Mauro Pagani, co-produttore dell’intero disco e autore delle musiche, mentre Fossati firma con De André i due pezzi in genovese “Mégu megún” e “Â çímma “.
Tra le tracce più suggestive svetta “La domenica delle salme”, che si aggiudicherà la Targa Tenco come canzone dell’anno, una lunga e sferzante denuncia sociale contro la perdita di ideali, nata nel segno della disillusione in seguito alla fine del comunismo e al dilagare di un vacuo edonismo (“la bottiglia d’orzata dove galleggia Milano” rovescia l’espressione “Milano da bere”).
Ma a trascinare il disco è soprattutto la beffarda satira in napoletano di “Don Raffae’“, in cui il protagonista, boss detenuto nella cella-reggia di Poggioreale, è assistito da un secondino-maggiordomo che è al servizio della mala non per disonestà, ma per la latitanza dello Stato, che si è inghiottito i suoi “quaranta concorsi, seicento domande e novanta ricorsi“.
L’allusione è a Raffaele Cutolo, che a sorpresa, dal carcere, invierà sentiti complimenti affermando: “Non capisco come abbia fatto a cogliere la mia personalità e la mia situazione in carcere senza avermi mai incontrato”.
Anche se naturalmente l’intenzione di De André e Pagani era tutt’altra: denunciare le connivenze in carcere e la sottomissione alla criminalità anche di apparati dello stato, un rapporto malato che porta Don Raffaè ad approfittare del brigadiere Pasquale Cafiero per manipolarlo.
In bilico tra poesia e canzone popolare, la title track iniziale, monologo recitato da Lalla Pisano e Maria Mereu, e la settecentesca “Ottocento”, sorta di “opera buffa” dove dietro il canto falsamente colto, che fa il verso alla lirica, e a luccicanti sfumature rococò, si cela un’invettiva contro la frivolezza e l’egoismo imperanti.
Il senso complessivo dell’opera è stato svelato dallo stesso De André in un’intervista disse: “Le Nuvole, per l’aristocratico Aristofane, erano quei cattivi consiglieri, secondo lui, che insegnavano ai giovani a contestare. Le mie Nuvole sono invece da intendersi come quei personaggi ingombranti e incombenti nella nostra vita sociale, politica ed economica, sono tutti coloro che hanno terrore del nuovo perché il nuovo potrebbe sovvertire le loro posizioni di potere”.
Nella seconda parte dell’album, si muove il popolo, che quelle Nuvole subisce senza dare peraltro nessun evidente segno di protesta.
“Le nuvole” è in definitiva un album di passaggio, proprio come suggerisce il titolo, ma getta le fondamenta del successivo capolavoro del connubio De André-Fossati.
Segue un periodo di silenzio di quattro anni, finché nel 1996 Fabrizio De André torna con “Anime salve” quello che è destinato a rimanere come il suo testamento musicale è anche un disco splendido, un viaggio pieno di suggestioni, sapori, incontri, da Bahia a Genova, passando per la Sardegna.
“Anime salve” non è solo il suo disco più sinceramente multietnico, ma anche il suo più corale, nel rapporto con i testi, con cui la musica vive in meravigliosa e complementare armonia, quanto nello stile e negli arrangiamenti talvolta saturi, e ancora (e soprattutto) nelle partecipazioni e collaborazioni.
La chitarra di De André è circondata da un mare di strumenti antichi e nuovi, dalle disparate origini geografiche, nel segno di un sincretismo culturale che si riflette anche nella scelta delle lingue, con brani cantati in italiano, romanes, brasiliano, genovese e la sua voce profonda, seppur offuscata dal fumo e dagli anni, riesce sempre a incantare.
Sono così in tanti ad accompagnarlo nel suo viaggio: Piero Milesi in cabina di produzione, il figlio Cristiano eletto ad autentico braccio destro, Ellade Bandini alla batteria, l’orchestra “Il Quartettone”, la moglie Dori Ghezzi e la figlia Luvi alle voci e soprattutto il concittadino Ivano Fossati, co-autore dei brani. E poi il grande percussionista brasiliano Naco, il mito del cymbalon Sàndor Kuti, il fisarmonicista russo Vladimir Denissénkov, l’inconfondibile arpa di Cecilia Chailly, l’altrettanto fido Mario Arcari e una lunga serie di strumentisti di livello.
È un percorso affollato di spiriti solitari, che abitano angoli appartati della Terra. L’isolamento, diceva De André, ti consente di non stare nel mucchio. È la sola condizione idonea a non essere contaminati da passioni di parte, uno stato di tranquillità dell’animo che permette di abbandonarsi all’assoluto.
Un obiettivo annunciato fin dal titolo dell’album, che mantiene l’etimo tanto di “animo” quanto di “salvo”, ovvero “spirito solitario”.
Interamente acustico, l’album mescola sapori etnici, jazz, folk. Il salmo universale a due voci della title track è il paradigma della collaborazione con Fossati, della sintonia cercata e trovata con fatica dai due, delle differenze vocali e stilistiche che qui arricchiscono di elementi il duetto anziché minarne la coralità.
Diversità che si ripresenta nel contrasto vocale come negli “spiriti solitari” del testo, liberi per scelta dalle convenzioni che uniformano gli uomini costringendoli a tenere nascosta la loro personalità e di conseguenza, il loro meglio. Un processo totalmente assente nella spontaneità del mondo animale, omaggiato nella danza assorta cantata a mezza voce di “Le acciughe fanno il pallone”, la cui dinamica impalcatura nasconde un impeto strumentale che si esprime nel finale, mentre il pescatore insegue l’impossibile “sogno” di “pescare il pesce d’oro”.
“Mi sono visto di spalle che partivo“, recita un verso di “Anime salve”: è un rifiuto dell’identità anagrafica, dell’uomo costruito dalla “legge del branco”, che impone a ciascuno dove e come stare al mondo.
Un rifiuto simile a quello di “Princesa” (dall’omonimo racconto-intervista di Maurizio Iannelli), che tenta di “correggere la fortuna” per finire “tra ingorghi di desideri” maschili. Una straordinaria invenzione letteraria e musicale costruita su ritmi bahiani (una fusione di jazz, pop e bossanova) e colori tropicali, mescolando armonici e sovrattoni sudamericani con un refrain tintinnate in stile “Creuza de mä”, siparietti swing e danze folk. Un insieme che riproduce il tema del viaggio e lo mette in relazione con quello, tanto caro a De André, della prostituzione, in quello che è l’esempio più emblematico di aggiornamento della poetica del cantautore alla sua migrazione stilistica e culturale (dalla prostituta al transessuale).
Il protagonista è infatti, Fernandinho divenuto Fernanda, incompreso nel contesto familiare contadino brasiliano e costretto a vendere, per poterlo mantenere economicamente, quel corpo femminile tanto desiderato. Di nuovo un diverso, di nuovo un’emarginata costretta a pagare per poter ottenere la libertà.
Altra solitudine volontaria e libera è quella dei Rom, descritti tramite la tribù serbo-montenegrina dei “Khorakhanè”, raminga per il mondo “tra le fiamme dei fiori a ridere e a bere“, il tutto iniziando con un’aurora elettronica su cui si stende un recitativo d’introduzione, e finendo in un’aria orchestrale di donizettiana intensità in lingua rom. Un passaggio che raggiungerà il suo apice emotivo dal vivo, trascinato dall’ugola cristallina di Luvi (figlia avuta con Dori), pronta a sostituirsi a quella più asciutta di Dori Ghezzi sul disco. Nel mezzo De André appoggia con la massima delicatezza versi colossali come “Saper leggere il libro del mondo con parole cangianti e nessuna scrittura” o “Questo filo di pane tra miseria e fortuna”.
Non scampa a un destino di solitudine neanche la tenerissima “Dolcenera“, che accoppia un cantico brasiliano con una delle migliori tarante di Fabrizio, per incastonare il canto spiegato della fisarmonica e soprattutto una delle sue magistrali narrazioni per parallelismi, allusioni e metafore, qui a primeggiare è l’amore, l’amore di un uomo in trepidante attesa di una donna, al punto tale da immaginarsi il suo arrivo mentre questa è invece sommersa dall’alluvione di Genova del ’70 e dall’esondazione del fiume Nera.
E quando “la corsa del tempo spariglia destini e fortune”, nasce l’invidia e la faida di “Disamistade”, che non ha pietà di nessuno, innocenti e assassini: una ballata sardonica in cui risalta il miglior De André in rima, forte però anche di versi liberi che ne accentuano il dolore (“uno scoppio di sangue, un’assenza apparecchiata per cena”), assieme al liturgico accompagnamento elettronico di Milesi e ai sospiri orchestrali.
“Ho Visto Nina volare” ,inserito nell’album Anime salve, è un brano dedicato all’amica d’infanzia, coetanea e vicina di casa Nina Manfieri (a lato l’immagine di lei adulta e di Nina, Fabrizio e suo fratello) e che parla di loro due, della loro infanzia spensierata all’insegna della libertà, mentre a pochi metri di distanza la guerra imperversava.
Sono cresciuti insieme a Revignano d’Asti Fabrizio e Nina Manfieri, la famiglia De André acquistò la cascina accanto a quella dove viveva famiglia Manfieri, i De Andrè erano sfollati in Piemonte perché il padre era ricercato dai fascisti per aver dato rifugio ad alcuni ebrei nella sua scuola.”Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena – un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena – e se lo sa mio padre dovrò cambiar paese – se mio padre lo sa mi imbarcherò sul mare“.
È un viaggio di dannazione e redenzione il volo di Nina, è un non-ritorno che segue la via del miele: ed ecco la Basilicata. “Mastica e sputa- da una parte il miele- mastica e sputa- dall’altra la cera”, le contadine di Matera masticano la cera d’api e sputano questa da una parte, il miele da un’altra, secondo una pratica antichissima. E questa è l’altra grande immagine che ispira De Andrè, che egli utilizza nel testo quasi come una proiezione quotidiana del giudizio universale, da una parte i buoni, dall’altra i dannati.
Un nuovo omaggio alla Sardegna musicale e una denuncia delle faide tipiche della cultura isolana di qualche decennio prima, una delle due grandi eccezioni all’omogeneità tematica del disco assieme al duetto in genovese di “Â cumba”, a tempo di scintillante saltarello, sostenuto dal coro femminile e unica parentesi di positività in un album di canzoni lunghe e sofferte.
Il disco si chiude con la solenne invocazione di “Smisurata Preghiera” (ispirata dal “Gabbiere” di Alvaro Mutis), che è quasi il testamento spirituale dell’intera opera di De André, è la testimonianza di chi ha vissuto sempre uno splendido isolamento, presupposto necessario per “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità”.
Tre minuti d’invettive e indignazioni spirituali contrappuntate dai commossi accordi jazz delle tastiere e dalle sincopi solenni da cerimonia della batteria e 4 minuti di trasfigurazione strumentale: dapprima un’invocazione in crescendo di fiati mediterranei, quindi una divagazione sinfonica da cui esala la morale dell’opera, tutta la sconfinata mestizia delle anime del titolo. È la furente richiesta di riscatto da parte dei personaggi descritti in tutto il disco, ovvero coloro che hanno scelto di pagare la solitudine e l’emarginazione come prezzo per la loro libertà. È la conclusione del viaggio, lo sfogo, la sintesi del concetto di libertà, frutto del lungo contrasto tra la tesi di partenza (la voglia di libertà, di poter abbattere i confini e confrontarsi con il mondo esterno a sé stessi) e le numerose antitesi incontrate nel corso del viaggio (i prezzi da pagare per ottenere la libertà stessa).
Nell’immaginario collettivo è l’epitaffio nell’epitaffio, il testamento pre-mortem di De André, per taluni addirittura il sunto dell’intera opera lirica e musicale dell’artista. Un ruolo ricoperto, aumentando il raggio di veduta, dall’intero Anime salve, uno dei vertici assoluti, per varietà stilistica e profondità lirica, della musica italiana, nonché l’ultimo regalo di uno dei suoi più grandi esponenti.
De André è dunque il primo migrante, pronto a prendere in prestito elementi musicali e linguistici dalle tradizioni più disparate, e dietro di lui sono migranti i protagonisti delle storie raccontate nei brani.
Storie di emarginazione, di diversità, di solitudine e di libertà, fra le più scomode e sentite della sua carriera, rese per mezzo di testi mai così diretti, espliciti, per certi versi volgari, la focalizzazione sul “diverso”, l’eterno contrasto tutto baudelairiano tra l’orrore del reale e la contraddittoria meraviglia dell’umano, tra un marcato rifiuto delle (presunte) virtù convenzionale e una giustificazione quasi ossessiva dei vizi (pretestuosamente tali) è forse il vero unico trait d’union, tutto lirico, tra il primo De André e l’ultimo.
Nel tour successivo, che sarà immortalato nel live postumo Fabrizio De André in concerto (1999), il suggello dal vivo a un disco già definito un instant classic e l’abbraccio con i figli, Cristiano e Luvi: con quest’ultima, si rinnoverà sul palco il magico duetto di “Geordie”, l’antica ballata britannica nata intorno al XVI secolo che Fabrizio riadattò nel 1966, interpretandola in duo con Maureen Rix, con un testo in lingua italiana che riprendeva la versione di Claude François del 1965.
“Ho un’estrazione borghese e mi sono adagiato un po’ su questo materasso di piume. Avrei potuto dare molto di più se fossi nato alla Foce, da un pescivendolo”, diceva spesso De André scherzando sulla sua proverbiale pigrizia.
Una pigrizia che faceva disperare i discografici: quasi impossibile strappargli un’intervista o un’apparizione televisiva, molto difficile vederlo in tour, eppure uno scherzo del destino ha voluto che proprio la sua ultima estate fosse la più densa di appuntamenti.
Una sfilza di concerti in tutt’Italia che doveva rilanciarlo, dopo la firma del “contratto-anti-pigrizia”, come aveva ribattezzato l’accordo fino al 2002 con la Ricordi. “Adesso – aveva annunciato – dovrò decidermi a fare il disco di cover dedicato ai cantautori brasiliani che ho in mente da tempo. Con i miei ritmi non ce la farei a registrarne uno tutto mio” ma purtroppo il destino aveva previsto un finale infausto.
Fabrizio De André è morto l’11 gennaio 1999, all’Istituto dei Tumori di Milano ma lascia alla cultura italiana versi e suoni da ricordare; alle cronache musicali, una folla innumerevole di imitatori.
La sua carriera quasi quarantennale è stata degnamente ricordata nel triplo box In “Direzione ostinata e contraria” (2005): cinquantaquattro brani, tutti “demasterizzati”, per riassaporare l’aroma originario, imperfezioni incluse, una maratona emozionante attraverso i versi e i suoni di quello che probabilmente resterà il più grande cantautore italiano di sempre.
I suoi estimatori continueranno sempre a dedicargli i versi che Fabrizio aveva scritto per l’amico Luigi Tenco la notte in cui s’era ammazzato: “Ascolta la sua voce- che ormai canta nel vento- Dio di misericordia, vedrai, sarai contento“, è la “Preghiera in gennaio” di tutti quelli che lo hanno amato.
«Ti ascolto ed è sempre come se fosse la prima volta, una scoperta continua, c’è sempre qualcosa in più, qualcosa che si precisa meglio, qualcosa che ti segue e non ti molla», scriveva Mina ricordando Fabrizio De André, uno dei più grandi cantautori italiani del 900, scomparso l’11 gennaio di 26 anni fa dopo una lunga malattia.
Più che un cantautore Faber, come veniva soprannominato, è un poeta dei nostri tempi, capace di mettere in musica parole che tanto in profondo raccontano le persone, la loro umanità, la loro miseria, non si può parlare di De André al passato, perché più di qualunque altro paroliere è al di sopra del passare del tempo.
I testi delle sue canzoni sono così intensi e attuali, perché parlano delle anime delle persone, e proprio alla loro anime si rivolgono.
Ho ascoltato Fabrizio De André per la prima volta da piccola, non saprei dire l’età precisa. 5, 6, 8 anni? Lo metteva spesso mio papà spesso nell’aria riecheggiavano le note de “La canzone di Marinella”, di “Bocca di rosa”, de “Il pescatore”, de “La guerra di Piero”, di “Amore che vieni amore che vai”.
Ci sono ricordi che restano indelebili nella mente senza alcun motivo preciso, non sono collegati a un evento importante, ma sono piuttosto diapositive di un momento che abbiamo vissuto e di un luogo in cui siamo stati che nascondono emozioni aleggianti, destinate non si sa bene perché, a rimanere impresse nella memoria per tanti anni, per sempre.
Un ricordo che conservo della mia infanzia è proprio legato a De André, i miei genitori stavano facendo dei lavori in casa, ed io ero seduta al mio tavolino, forse da colorare, forse da leggere, e ascoltavo il Faber, non capivo tutto quello che sentivo, e certe cose mi sembravano anche un po’ strane, ma come succede nell’età della fanciullezza non avevano poi un grande peso, erano belle.
Mi piaceva la melodia, mi piacevano le parole che raccontavano storie e personaggi, le ascoltavo e potevo immaginarle, c’era un re senza corona e senza scorta, e una ragazza che scivolava in un fiume a primavera, e poi sempre lui che bussava per cent’anni alla sua porta, e poi una bella signora che metteva l’amore sopra a ogni cosa, ma arrivarono quattro gendarmi con i pennacchi che la misero su un treno per mandarla via, perché aveva sottratto l’osso a delle cagnette e poi un giovane di nome Piero che doveva sparare ma non lo fece in tempo, e c’erano mille papaveri rossi intorno a lui.
Parole belle, certo un po’ casuali per una bambina di sei anni che non poteva capirle, ma la magia delle canzoni di Fabrizio De André, come diceva Mina, è che sono una scoperta continua.
Secondo me per quante volte uno possa ascoltare una sua canzone, ogni volta che lo farà percepirà un’emozione nuova, comprenderà meglio una verità su se stesso o sugli altri.
Quelle parole che da bambina non capivo sono rimaste nella mia mente, si sono sedimentate, hanno formato una base emozionale che si è man mano rivelata in modi diversi, quando poi negli anni a venire le ho riascoltate con una ben diversa maturità.
Ciò che ha reso il Faber (appellativo che gli dette l’amico Paolo Villaggio, con riferimento alla sua predilezione per i pastelli e le matite della Faber-Castell, oltre che per l’assonanza con il suo nome, e talvolta come “il cantautore degli emarginati” o il “poeta degli sconfitti”) un artista dell’anima che sarà vivo per sempre, perché attuale oggi come in futuro, è la sua straordinaria capacità di raccontare l’umanità, di parlare di ognuno di noi, e di farci emozionare in modo diverso in ogni fase della nostra vita.
Con il 26esimo anniversario della sua morte, avvenuta a Milano l’11 gennaio 1999, mi è tornato alla mente uno dei miei ricordi d’infanzia e ho pensato a come Fabrizio De André abbia definito la base della mia cultura musicale (e non solo) e mi sono chiesta: che musica far ascoltare ai bambini? Come scegliere quale genere musicale o autore far sentire ai figli quando sono piccoli? E De André, per quanto lo abbia apprezzato nella mia infanzia, era obiettivamente un autore adatto per una bambina? Non esistono risposte univoche.
Spesso i genitori desiderano far ascoltare ai figli la musica che loro per primi amano, per influenzarne i gusti, per condividere con loro una passione e dei momenti di valore, ma dovendo pensare in generale a quale musica far sentire ai propri figli quando sono giovani e non hanno ancora formato i propri gusti, scegliere i più grandi cantautori italiani, tra cui svetta De André, ha una valenza educativa e formativa non solo alla musica, ma al significato delle parole, alla poesia, alle emozioni, ai sentimenti, ala vita, insomma.
Fabrizio aveva una paura tremenda del palco. Aveva sempre paura di sbagliare. Era sempre lì a pensare: “ma cosa sto facendo, sto facendo una belinata?”.
Quando scriveva le sue canzoni, ascoltava e riascoltava le parole, la musica era molto preciso, se c’era qualcosa da aggiustare, lo aggiustava. Per fare un disco, ci metteva un anno, due anni, anche di più, ma quando usciva, era sempre un capolavoro, Fabrizio aveva il suo pubblico, sapeva di averlo, sapeva di essere amato.
Dopo i concerti, faceva entrare nel suo camerino tutti quelli che lo volevano salutare, gli faceva piacere, era contento di chiacchierare con loro, Fabrizio si sentiva considerato, riconosciuto.
Fabrizio era già famoso da un pezzo, però, da quando è morto, è diventato ancora più famoso, come se gli avessero riconosciuto l’immortalità.
Mi chiedo, perché non lo hanno considerato prima come viene considerato adesso? Se Fabrizio avesse saputo di essere così amato, così come lo è adesso, lui sarebbe rimasto molto contento, ne avrebbe avuto un piacere enorme, Fabrizio era soddisfatto, sì, lo era, Fabrizio aveva la consapevolezza di essere un grande, si, quello sì.
Negli ultimi tempi prima di morire aveva fatto una tournée invernale e una estiva, che grandi fatiche! Prima, non le aveva mai fatte, col pubblico, era diventato più chiacchierone, più affettuoso, aveva un sacco di progetti, voleva fare tutti i lavori, secondo me, era come se ci fosse qualcosa che lo avvisava, e Fabrizio sentiva che voleva lasciare di lui molte cose di quelle che già c’erano, a fine concerto, si metteva a stringere le mani a tutti, aveva un viso più disteso, nei suoi concerti, era più sereno, anche se aveva la paura di sbagliare.
Fabrizio non era certo uno che faceva qualcosa per i soldi. Guai! Lui faceva le canzoni, ci metteva degli anni, non ha mai pensato di fare qualcosa di piccolo, una canzoncina, una piccola pubblicità, per farsi dei soldi, mai, lui era un grande anche in questo!
“Non c’è speranza nell’uomo se non nell’amore che uccide l’odio, nella carità che uccide cupidigie, e rancori, e ingiustizie. I potenti rammentino che la felicità non nasce dalla ricchezza né dal potere, ma dal piacere di donare. La morte è rimorso per chi non ha saputo aprirsi, in vita, alla compassione” diceva Faber.
Fabrizio era unico, lo era nella fatica, nel disagio, nell’inquietudine di creare, credo che fosse, da solo, un’intera isola sospesa tra i mari della dolcezza e della rabbia, un porto di navi e lingue diverse, di marinai e donne misteriose, e dall’isola lui sapeva ascoltare il rumore del mare profondo e delle sue creature, dalle più dolci alle più feroci, dalle più umili alle più grandi, vittime e avventurieri, nani e gorilla, prostitute e fate.
Era anche unico nel suo essere dalla parte di chi soffre e perde, la musica di Fabrizio per me è questo: ascoltare a occhi chiusi il rumore del mare, le voci, i dialetti del porto, le grida. Le sue canzoni sono un vaccino contro ogni razzismo, hanno il coraggio e la passione di incontrare le diverse culture nel momento in cui cantano e raccontano, non soltanto quando sono piegate dal dolore e dalla necessità.
De André travalicava la musica e si immergeva nei meandri nascosti della vita …sembra di sentirlo parlare e dice più lui da assente di tanti altri ancora vivi!!!
Ciao Fabrizio!
Da Parte mia è tutto.
Alla Prossima da SonoSoloParole.