Oggi vi voglio parlare di Fabrizio De Andrè nel suo ventiseiesimo anniversario della sua morte.
Ha stravolto i canoni della canzone italiana con le sue ballate, sempre sospese tra mito e realtà ed ha sfidato gli arroganti di ogni tempo con il linguaggio sferzante dell’ironia, senza mai cedere alle “leggi del branco”, uno dei grandi maestri del songwriting italiano.
Fabrizio De André è uno dei maestri indiscussi della canzone d’autore italiana, profondamente influenzato dalla scuola d’oltre Oceano di Bob Dylan e Leonard Cohen, ma ancor più da quella francese degli “chansonniers”, Georges Brassens su tutti, è stato tra i primi a infrangere i dogmi della “canzonetta” tradizionale, con le sue ballate cupe, affollate di anime perse, emarginati e derelitti d’ogni angolo del mondo.
Il suo canzoniere universale attinge alle fonti più disparate: dalle ballate medievali alla tradizione provenzale, dall”Antologia di Spoon River” ai canti dei pastori sardi, da Cecco Angiolieri ai Vangeli Apocrifi, dai “Fiori del male” di Baudelaire al Fellini dei “Vitelloni”. Temi che negli anni si sono accompagnati a un’evoluzione musicale intelligente, mai incline alle facili mode e ai compromessi.
De André usava il linguaggio di un poeta non allineato, ricorrendo alla forza dissacrante dell’ironia per frantumare ogni convenzione, nel suo mirino, sono finiti i “benpensanti”, i farisei, i boia, i giudici forcaioli, i re cialtroni di ogni tempo.
Il suo, in definitiva, è un disperato messaggio di libertà e di riscatto contro “le leggi del branco” e l’arroganza del potere, uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, lo chansonnier per eccellenza, un artista che si realizzò proprio nell’intertestualità tra testo letterario e testo musicale.
Le musiche delle sue prime canzoni, radicate da Nicola Piovani dentro la tradizione popolare italiana, sono state negli anni contaminate da altre culture. Il suo linguaggio si è gradualmente evoluto verso il sincretismo e proprio la valorizzazione dei dialetti gli è valsa il Premio Govi.
Fabrizio De André nasce a Genova il 18 febbraio 1940, in Via De Nicolay 12, da Luisa Amerio e dal professor Giuseppe De André.
Nella primavera del 1941, il professor De André, antifascista, visto l’aggravarsi della guerra, sposta la famiglia nell’Astigiano, acquistando un casale nei pressi di Revignano d’Asti, la Cascina dell’Orto, dove Fabrizio trascorre parte della propria infanzia con la madre e il fratello maggiore Mauro, qui il piccolo “Bicio”, come viene soprannominato, impara a conoscere tutti gli aspetti della vita contadina, integrandosi con le persone del luogo.
Ed è proprio in quel contesto che inizia a manifestare la sua passione per la musica: un giorno la madre lo trova in piedi su una sedia, con la radio accesa, intento a dirigere un brano sinfonico a mo’ di direttore d’orchestra, la leggenda narra che si trattasse del “Valzer campestre” del celebre compositore Gino Marinuzzi, dal quale, oltre 25 anni dopo, Fabrizio trarrà ispirazione per il suo “Valzer per un amore”.
Nel 1945 la famiglia De André torna a Genova e nell’ottobre del 1946 il piccolo Fabrizio viene iscritto alla scuola elementare presso l’Istituto delle suore Marcelline (da lui ribattezzate “porcelline”) dove inizia a manifestare il suo temperamento ribelle e anticonformista, viene quindi spostato in una scuola statale, l’Armando Diaz e nel 1948, i genitori, appassionati di musica classica, decidono di fargli studiare il violino affidandolo alle mani del maestro Gatti, che subito scorge tutto il talento del giovane allievo.
Fabrizio porta avanti gli studi fermandosi all’università, facoltà di Giurisprudenza, a sei esami alla fine ma nel frattempo, era esplosa la sua vocazione musicale, tramite gli studi di chitarra, oltre che di violino, e l’esibizione in concerti jazz, fino alla composizione di propri brani originali.
Una vocazione che, grazie al successo dell’interpretazione nel 1968 da parte di Mina della sua “Canzone di Marinella”, gli permette di continuare il mestiere di musicista, il brano, che era stato scritto da De André nel 1962 e pubblicato su singolo due anni dopo assieme a “Valzer per un amore”, è una fiaba sognante, sospesa nel tempo, ma ispirata in realtà dalla storia vera della morte di una prostituta. “La storia di una ragazza che a 16 anni si era trovata a fare la prostituta ed era stata scaraventata nel Tanaro o nella Bormida da un delinquente”, secondo le parole del suo autore, anche se l’episodio più plausibile per l’ispirazione del brano pare sia stato un delitto del 29 gennaio 1953: l’uccisione di una ragazza di nome Maria, il cui corpo venne poi gettato nel fiume Olona.
Una storia che emozionò il giovane Fabrizio al punto da spingerlo a reinventare una vita a quella ragazza e ad addolcirne la morte. La definirà “una canzone napoletana scritta da un genovese” e sarà impreziosita dall’orchestrazione del maestro Gian Piero Reverberi: un ritmo lento di bolero per una cornice musicale scarna ma solenne, con un testo che con linguaggio quasi arcaico pennella una fiaba di grande intensità poetica.
Non sarà la prima volta che un episodio di cronaca verrà sublimato da De André in musica, proprio la realtà quotidiana, infatti, dà linfa alle sue prime composizioni, che tradiscono la passione per la letteratura francese, Proust, Maupassant, Villon, Flaubert, Balzac, su tutti.
A colpire è anche l’interpretazione di De André che, come il maestro Cohen, indulge sulle tonalità più basse, grazie alla sua voce profonda e baritonale, aggiungendo un tocco di drammaticità in più.
Erano gli anni in cui la Scuola di Genova sfornava canzoni d’autore con Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi e soprattutto Luigi Tenco, l’amicizia di De André con quest’ultimo nasce in una balera di Genova.
Tenco gli si avvicina dicendo: “Sei tu che vai in giro a dire che “Quando” l’hai scritta tu?”. “Si’, l’avevo detto in giro per rimorchiare”, la replica di De André. Tenco si mette a ridere.
Da qui in poi nascerà un’amicizia tra i due, fino a quella tragica notte del 27 gennaio 1967 quando Luigi Tenco si toglierà la vita a Sanremo e De André, al ritorno dal funerale si metterà davanti a un foglio di carta, scrivendo di getto una canzone per l’amico scomparso, “Preghiera in gennaio”, che riprende il tema del “suicidio eroico”, già caro al Leonard Cohen di “Who By Fire” e che ricorrerà spesso nel canzoniere dell’artista genovese. De André compose questo brano come un omaggio discreto a un amico, un modo per gratificarlo e per ricordarlo senza, però, voler strumentalizzare la cosa e proprio per evitare ciò, infatti, De André rivelerà solo alcuni anni dopo di aver scritto questo brano in memoria di Tenco.
Una ballata splendida e commovente, che sarà anche inclusa su Volume 1, il primo album di inediti pubblicato da De André nel 1967 dalla Bluebell, con versi molto toccanti e polemici ancora una volta contro la morale comune che condanna senza pietà i suicidi: “Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia, se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio, fra le sue braccia soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte”.
Con “Preghiera in Gennaio” De André compone un vero capolavoro parlando del trattamento che andrebbe riservato nell’aldilà da un suicida che ha preferito la morte all’odio e all’ignoranza presente nella vita terrena. La Chiesa non ammette il suicidio ma De André dice “l’inferno esiste solo per chi ne ha paura” Dice inoltre che Dio bacerà le persone che non hanno saputo vivere, le persone che all’odio e all’ignoranza han preferito la morte e le accoglierà nel suo bel paradiso a dispetto di quei benpensanti che non approverebbero mai questa cosa. “Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento, Dio di misericordia vedrai sarai contento” è una celata richiesta a Dio di accogliere Tenco in paradiso, lui che ormai morto canta nel vento.
E’ una canzone che sprigiona amore e tristezza, del resto parla di morte, ma di una tristezza stracolma di amore.
Un testo ispirato in parte a una poesia di Francis Jammes, un poeta francese dei primi del Novecento, “Prière pour aller au paradis avec les ânes”.
Il primo 45 giri attribuito a Fabrizio De André risale in realtà a qualche anno indietro, “Nuvole Barocche” (1958), un brano d’impostazione tradizionale sulla falsariga della canzone melodica d’autore di Domenico Modugno.
La canzone sentimentale occupa un posto di rilievo nella prima produzione del cantautore ligure, sublimandosi in ballate di struggente intensità emotiva, come ad esempio la dolente “La canzone dell’amore perduto”, riflessione sua fine di una storia, interpretata con tono fatalista su una musica del compositore tedesco Georg Philipp Telemann, il tema del concerto per tromba e orchestra in Re maggiore, e la melanconica “Amore che vieni, amore che vai”, che si sofferma mestamente sulla caducità del sentimento e sulla sua mutevolezza.
Da altri brani, invece, affiora la vena più caustica e anticonformista di De André, attraverso una serie di temi scomodi, disturbanti e oltraggiosi per la morale dell’Italia dell’epoca, un capitolo è sicuramente occupato dalle invettive antimilitariste, celate dietro le sonorità trasognate e i versi aulici di canzoni come “La ballata del Michè”, “La ballata dell’eroe” e soprattutto “La guerra di Piero”, quasi una risposta italiana agli inni pacifisti di Bob Dylan e Joan Baez, con la storia del soldato antieroe protagonista, che ha un moto di clemenza verso un militare nemico che gli risulterà fatale, ricevendo per tutta risposta dal nemico un colpo che lo uccide. Il “nume tutelare” è ancora una volta Brassens, ma l’ispirazione viene anche dalla figura dello zio del cantautore, Francesco, dal ricordo del suo ritorno dal campo di concentramento, dei suoi racconti tragici sulla guerra, nel testo, non mancano anche echi di altre poesie, tra cui “Le dormeur du val” ,L’addormentato nella valle, di Arthur Rimbaud, mentre una quartina richiama inequivocabilmente la canzone “Dove vola l’avvoltoio”, scritta nel 1958 da Italo Calvino e musicata da Sergio Liberovici.
Nel mirino di De André finisce soprattutto la società italiana più retriva e ipocrita. “La città vecchia” è una summa a ritmo di mazurca dei quartieri malfamati dell’umanità.
“Delitto di paese” è una sferzante ballata noir in cui miseria e morale bigotta sono immersi in un clima baudelairiano da “Fiori del male”, ma con lo spirito caustico di Brassens ad aleggiare su ogni verso.
La “Ballata dell’amore cieco”, parabola crudele della vanità femminile, pare addirittura uscita da una delle leggende dei Nibelunghi.
Tra le canzoni dell’epoca svetta anche un geniale guizzo satirico, la ballata medievale “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers”, scritta con l’amico Paolo Villaggio, in grado di raggiungere vette di comicità esilarante degne dei monologhi teatrali più oltraggiosi di Dario Fo.
Mentre De André pennella una musica solenne, Villaggio usa per il testo un linguaggio sarcasticamente aulico, ispirandosi alla tradizione medievale e fatta di battaglie, onore e “cavalleria”, narrando le vicende di Carlo Martello, che, appena tornato vittorioso dalle gloriose gesta belliche contro i Mori, non trova di meglio da fare che comportarsi da perfetto maschio cialtrone con una fanciulla popolana di facili costumi, incontrata mentre nuotava in un ruscello, per soddisfare i suoi appetiti sessuali, che gli provocano più dolore delle ferite fisiche riportate in battaglia.
Ancora il tema della prostituzione riemerge su due altri gioielli del periodo: “Via del Campo” e “Bocca di rosa”, filastrocche incantate in cui il mestiere più antico del mondo viene ancora una volta “redento” in chiave mitica, fustigando l’ipocrisia borghese e la mentalità bigotta dell’Italia dell’epoca.
“Via del Campo” è ispirata all’omonima strada dei Carruggi di Genova che Fabrizio conosceva bene per via delle sue scorribande notturne degli anni 60 e che era sempre teatro di amori mercenari e commerci illeciti: una ballata con musica tratta da una canzone di Dario Fo ed Enzo Jannacci, “La mia morosa la va a la fonte”.
È invece ancora una volta Brassens, con la sua celebre canzone “Brave Margot”, l’ispirazione per la geniale “Bocca di Rosa”, altra feroce invettiva contro “le comari di un paesino”, qui chiamate a rappresentare la mentalità retrograda, invidiosa e beghina dell’Italia intera.
Con questa sequenza impressionante di brani, De André demolisce, a uno a uno, tutti i cliché della canzone tradizionale coronando, in Italia, un’operazione paragonabile a quella compiuta da Bob Dylan negli Stati Uniti. “Se non avessi mai conosciuto le canzoni di Fabrizio, non avrei mai cominciato a scrivere le mie”, ha detto, per esempio, Francesco De Gregori.
E anche Franco Battiato si è detto debitore delle ballate di De André, tanto che nel suo album “Fleurs” ha voluto incidere due cover, “La canzone dell’amore perduto” e “Amore che vieni, amore che vai”, tratte dal primo repertorio dell’artista ligure.
Quelli di De André sono ritratti sociali folgoranti, intrisi di un’ironia caustica e dissacrante, con personaggi che sembrano quasi schizzare fuori dai versi, con la loro carica di umanità, inquietudine, disperazione.
La canzone italiana scopre finalmente temi sociali e politici, affrontati però non in chiave ideologica ma libertaria, anarchica nel senso più puro del termine. Inevitabile pertanto che De André, suo malgrado, diventi uno dei riferimenti della contestazione giovanile, nonché l’incubo dei burocrati televisivi, che non sanno fin dove la censura può colpire storie così sottili e metaforiche, però altrettanto esplicite nella loro denuncia sociale.
Si passa “Dal girone infernale alla Buona Novella” e la fine del decennio 60 è uno dei momenti topici della carriera dell’artista ligure, escono infatti Fabrizio De André, Volume I”, che raccoglie alcuni dei suoi più fortunati singoli del primo periodo, seguito l’anno dopo dal sontuoso concept-album “Tutti morimmo a stento” (1968), il lavoro con cui dimostra finalmente di poter competere con i migliori cantautori internazionali del suo tempo anche sul formato 33 giri.
Edito con il sottotitolo di “Cantata in si minore per solo, coro e orchestra”, è un viaggio in un girone dantesco della desolazione umana, tra drogati, condannati a morte, fanciulle traviate, orchi e bambini sconvolti, un viaggio ossessionato e ossessionante, accompagnato dalle note di un’orchestra sinfonica diretta da Giampiero Reverberi.
La formula scelta, come spiegò lo stesso De André, è quella classica della cantata “in cui tutti i brani sono uniti tra loro da intermezzi sinfonici e hanno come minimo comune denominatore quello di essere nella stessa tonalità, e di trattare lo stesso argomento”, argomento rappresentato dall’emarginazione e dalla morte “psicologica, morale, mentale”.
L’atmosfera dominante è dunque tetra, funerea, i brani si susseguono senza pause, scanditi dagli “Intermezzi”, in un crescendo che culmina nel “Recitativo” e si scioglie nel coro finale.
L’ouverture è subito un pugno nello stomaco, con il “Cantico Dei Drogati”, che già dal titolo, in stridente contrasto con il “Cantico delle Creature” di San Francesco, pare voler sottolineare la degenerazione del genere umano.
Quando poi l’orchestra, la Philarmonia di Roma, lascia spazio alla voce baritonale di De André, l’intento diventa subito palese: “Ho licenziato Dio- gettato via un amore”. E un groppo d’angoscia già ti stringe la gola. “Come potrò dire a mia madre che ho paura?”, geme il derelitto al colmo della disperazione. E di fronte, ormai, c’è solo la notte, la voragine, la fine di tutto. Ma c’è anche un anelito d’eternità nei drogati che “giocando a palla con il proprio cervello tentano di lanciarlo oltre il confine stabilito, ai bordi dell’infinito”. E’ un testo meraviglioso, composto da De André insieme al poeta anarchico Riccardo Mannerini, morto suicida a Genova nel 1980.
A spezzare per un attimo la tensione provvede il “Primo intermezzo”, poi però l’avvolgente abbraccio del “Cantico” ripristina subito un clima di solennità, che si stempera lentamente nella fiaba noir della “Leggenda Di Natale”, ispirata a “Le Père Noel Et La Petite Fille”, brano di Georges Brassens datato 1958.
La semplicità dei giri d’accordi e delle rime baciate contribuisce a creare un’atmosfera magica e rarefatta, degna della “Canzone di Marinella”, ma il tema è tutt’altro che rassicurante: la protagonista è una ragazzina ingannata da un Babbo Natale che parlava d’amore ma “i cui occhi erano freddi e non erano buoni”. E così “adesso che gli altri ti chiamano dea- l’incanto è svanito da ogni tua idea-ma ancora alla luna vorresti narrare- la storia di un fiore appassito a Natale”, un raggelante presagio di pedofilia.
Attraverso il “Secondo Intermezzo” si giunge al centro ideale dell’architettura del disco: la “Ballata Degli Impiccati”, ispirata dalla “Ballade des Pendus” di François Villon, il primo “poeta maledetto” i versi di De André, sempre scarni, ruvidi, sarcastici, non cedono mai alla retorica del sentimentalismo.
Così, anche i condannati a morte di Villon si trasfigurano in creature mitiche, animate da un disperato, smisurato rancore.
A dare quasi una nota scenografica al disco è invece la soffice “Inverno”, che rinnova la tradizione delle “poesie stagionali” in voga nell’Inghilterra del Settecento, l’inverno è l’immagine della natura che si annulla nel bianco della neve e della nebbia, e nel nero degli alberi scarni, segnando la fine ciclica di tutte le cose: “Ma tu che stai, perché rimani? Un altro inverno tornerà domani- cadrà altra neve a consolare i campi- cadrà altra neve sui camposanti”.
Non si può non scorgere in questi versi l’ennesima metafora deandreiana della crisi della coppia, l’alternanza degli amori avviene fatalmente, in modo naturale, proprio come il cambio delle stagioni, un argomento molto caro a De André fin dai tempi di “Amore che vieni, amore che vai” e della “Canzone dell’amore perduto”.
Ma se “Inverno” fa sprofondare l’ascoltatore in una struggente malinconia, dopo il successivo “Girotondo” resterà posto solo per la disperazione e per l’orrore. “La terra è tutta nostra… ne faremo una gran giostra- giocheremo a farla nostra- marcondiro’ndero marcondiro’ndà”: il coro dei bambini impazziti, ebbri di guerra e di morte, è una delle trovate insieme più eccessive e agghiaccianti della storia della canzone italiana.
Il “Terzo Intermezzo” sfocia nello straziante “Recitativo” finale, condanna degli egoismi, del moralismo e dell’insensibilità umani, alternato al “Corale”, con il Coro dei cantori delle basiliche romane di Pietro Carapellucci, diretto da Reverberi, a fare da contrappunto all’invettiva recitata da De André, e della “Leggenda Del Re Infelice”.
Volutamente ridondante e barocco, influenzato dai primi vagiti del progressive italiano, “Tutti morimmo a stento” rappresenta una delle prove più limpide del talento di De André, non solo come autore, ma anche come musicista, e il suo strumento principe non può non essere ancora una volta la voce, un baritono profondo che, sul modello di Leonard Cohen, indulge sapientemente sulle tonalità più basse, accrescendo sempre pathos e drammaticità.
Subito dopo l’uscita del suo primo grande capolavoro a 33 giri, il cantautore genovese entra però in crisi sul da farsi e prende tempo, realizzando un disco di nome “Volume 3”, con varie re incisioni di canzoni già pubblicate con la Karim, alternate a quattro brani inediti.
Quindi, è il discografico Roberto Dané a fornirgli l’assist per un nuovo concept-album, che si concretizza con “La buona novella” (1970), un lavoro ispirato dalla lettura di alcuni Vangeli apocrifi, in cui l’annuncio del Salvatore si trasforma in atto di fede laico.
“Avevo urgenza di salvare il Cristianesimo dal Cattolicesimo spiegherà De André – Gesù di Nazareth secondo me è stato ed è rimasto il più grande rivoluzionario di tutti i tempi. E i vangeli apocrifi sono una lettura bellissima con molti punti di contatto con l’ideologia anarchica”.
E seguendo proprio le caratteristiche degli Apocrifi, la narrazione della Buona Novella sottolinea l’aspetto più umano e meno spirituale assunto da alcune tradizionali figure bibliche, ad esempio Giuseppe, e presta maggiore attenzione a figure minori della Bibbia, che qui invece diventano protagonisti (ad esempio, Tito e Dimaco, i ladroni crocefissi insieme a Gesù),il tutto attraverso immagini evocate per via metaforica, metonimica, parabolica, che si amalgamano alla perfezione con le storie raccontate.
I brani si avvicendano come pannelli, in una sorta di opera teatrale medievale, cadenzata da delicati arpeggi di chitarra acustica o dai rintocchi delle tastiere, con il coro liturgico a fare da contrappunto insieme agli archi: ne è una dimostrazione formidabile l’ingresso sulla splendida “L’infanzia di Maria”, con una fase centrale in cui invece è il clavicembalo a salire in cattedra con una fuga impressionante.
Straordinario anche il lavoro sui testi, cesellati con lirismo raffinato e toccante, a cominciare dalla struggente “Ave Maria” dedicata alle donne (“femmine un giorno e poi madri per sempre”).
Maria domina la narrazione, smarrendo via via i tratti sacrali della sua figura e rendendosi sempre più vera e umana: dalla nascita all’infanzia nel Grande Tempio, fino alla sua cacciata nel momento in cui diventa donna, al matrimonio forzato con un vecchio falegname che la lascia sola, e ancora adolescente, per quattro anni (commovente l’abbraccio tra i due nel folk desertico di “Il ritorno di Giuseppe“), fino all’apparizione dell’Angelo nella cornice onirica e fiabesca di “Il sogno di Maria” (“Lo chiameranno figlio di Dio-Parole confuse nella mia mente- svanite in un sogno, ma impresse nel ventre”) e alla progressiva consapevolezza del destino che attende il figlio.
Maria che torna al centro della scena assieme al costruttore delle croci (“Maria nella bottega del falegname”, quasi cadenzata dai colpi del martello e impreziosita da un ritornello enfatico, da musical) e alle madri dei due ladroni, nello straziante lamento di “Tre Madri” (“Tito non sei figlio di Dio, ma c’è chi muore nel dirti addio”) dove il dolore si mescola all’invidia umana per la condizione della Madonna che può trovare conforto nella resurrezione del figlio (“con troppe lacrime piangi Maria, solo l’immagine di un’agonia… lascia noi piangere un po’ più forte chi non risorgerà più dalla morte”), anche se la stessa Maria, denudata di ogni aura divina, lancia il suo grido disperato: “Come nel grembo e adesso in croce, ti chiama amore questa mia voce-non fossi stato figlio di Dio t’avrei ancora per figlio mio”.
Si diceva di come i due ladroni acquisiscano un ruolo centrale nella narrazione “apocrifa”: a uno di loro, Tito, è affidato proprio il monologo che fa da summa all’intero lavoro e resterà anche il brano preferito del cantautore genovese, assieme ad “Amico fragile”.
Su “Il testamento di Tito” De André usa la figura del buon ladrone, colui che era stato crocifisso alla destra di Gesù, per un testamento spirituale che è anche un’analisi critica dei comandamenti della religione cristiana. Con una conclusione chiara, che trova sollievo “nella pietà che non cede al rancore”, una specie di “undicesimo comandamento” di cui troviamo anche traccia nel Nuovo Testamento: “Che vi amiate gli uni con gli altri” (Giovanni 13,34-35). “E’ una canzone che dà un’idea di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha, uno di quei pezzi scritti col cuore, senza paura di apparire retorici”, spiegherà lo stesso De André.
E se il popolo, gli apostoli e “il potere vestito d’umana sembianza” guadagnano il centro della ribalta tra i languori country di “Via Della Croce”, l’atto finale e corale di “Laudate Hominem”, a mo’ di chiusura del cerchio, riprende il tema iniziale con il verso-simbolo dell’opera (“Non voglio pensarti figlio di Dio ma figlio dell’uomo, fratello anche mio”).
Anche musicalmente “La buona novella” segna un nuovo traguardo di rilievo: rispetto alla ridondanza del predecessore, Reverberi calibra gli arrangiamenti, lavorando per sottrazione ma esaltandone al contempo la sacralità, grazie anche a un uso solenne del coro gregoriano, che a volte pare mimare la moltitudine della folla.
Decisivo anche il contributo di una pattuglia di musicisti di rilievo, ci sono infatti I Quelli, il gruppo antesignano della Pfm, con Franco Mussida alla chitarra, Franz Di Cioccio alla batteria, Giorgio Piazza al basso, Flavio Premoli all’organo, Andrea Sacchi alla chitarra, Mauro Pagani al flauto e all’ ottavino, e partecipano alle session come turnisti anche Angelo Branduardi al violino e Maurizio Fabrizio alla chitarra classica, allora entrambi sconosciuti.
Opera complessa, stratificata, ma in perfetto equilibrio tra linguaggi e registri differenti, “La buona novella” resterà a lungo l’opera preferita dal suo autore, che le attribuirà un ruolo centrale nella sua intera poetica.
Dopo questi due esaltanti concept, seguirà un periodo particolarmente prolifico, in cui De André produrrà quasi un album all’anno, nelle sue canzoni dell’epoca, prevale la preferenza per toni musicali attutiti, smorzati, “in minore”, che accompagnano una versificazione che riecheggia la ballata di tradizione e di lontana provenienza medievale.
“L’Antologia di Spoon River” è lo spunto per “Non al denaro, non all’amore né al cielo” (1971), in cui il cantautore genovese è assistito dal paroliere Giuseppe Bentivoglio (testi) e Nicola Piovani (musiche, un altro lavoro complesso e sottile, carico di simbologia, i cui nuclei tematici sono soprattutto due: l’invidia (“Un matto”, “Un giudice”, “Un blasfemo”, “Un malato di cuore”) e la scienza (“Un medico”, “Un chimico”, “Un ottico”).
Al primo tema è dedicato il lato A, al secondo il lato B, se l’invidia porta a comportamenti negativi (come nel caso del giudice) o alienanti, la scienza conduce le ambizioni a esiti potenzialmente pericolosi, anche quando sono spinte da buone intenzioni (come nel caso del medico).
In entrambi i contesti, si prospetta però anche un possibile superamento, nei personaggi rispettivamente del malato di cuore, che supera l’invidia della salute attraverso l’amore, e del “Suonatore Jones”, che fuga i rischi delle proprie ambizioni attraverso la musica, suonando per passione e non per mestiere.
Ancora una volta è certosina l’opera di composizione musicale, tra arrangiamenti orchestrali, con l’apporto fondamentale di Piovani, sovrapposizione di parti in formato suite (emblematica, in questo senso, “Un ottico”) e l’uso di strumenti classici come clavicembali e violini, anche in questo caso, dunque, un concept-album costruito su continui rimandi e strutture circolari (ad esempio, il finale de “Il suonatore Jones” che riprende la melodia di “Un chimico”).
A fungere da prologo è “Dormono sulla collina”, affresco corale della misera gente che riposa sulla collina del cimitero di Spoon River, pennellato in un pugno di versi e lasciato fluttuare nella introduzione strumentale, mentre in coda prendono il sopravvento le dolci note dei flauti e la figura centrale del “Suonatore Jones” (che chiuderà anche il disco).
Toccante il ritratto di “Un malato di cuore” in cui un ragazzo è costretto dalla malattia a “spiare i ragazzi giocare” e a “farsi narrare la vita dagli occhi”, fino a trovare la morte proprio quando un bacio pare riportarlo alla vita (“ed il mio cuore le restò sulle labbra”).
Anche “Il matto” (Frank Drummer, internato in un manicomio nel libro) è in fondo nient’altro che un poeta che non ha trovato le parole per esprimersi, ma che possiede quella sensibilità che la gente “normale” non può raggiungere.
Il retaggio progressive impregna il valzer di “Un ottico”, apologo su uno “spacciatore di lenti” in cui la voce di De André sembra quasi disgregarsi, ripetuta e sovrapposta, come a confondere l’ascoltatore (“Vedo che salgo a rubare il sole per non aver più notti-Perché non cada in reti di tramonti l’ho chiuso nei miei occhi”).
E se in “Un chimico”, è l’ardire sperimentale a causare la morte del farmacista (“Morto in un esperimento sbagliato- proprio come gli idioti che muoiono d’amore- e qualcuno dirà che c’è un modo migliore”), il commiato de “Il suonatore Jones”, simbolo di purezza incontaminata, lascia filtrare quantomeno un barlume di speranza, con i refoli fatati dei flauti a dialogare con la voce profonda di De André (“In un vortice di polvere gli altri vedevano siccità- A me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa”, “Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati-A cielo e denaro, a cielo ed amore, protetta da un filo spinato”).
Ma su tutto brilla quella metafora sarcastica di tutte le invidie e le bassezze umane che è “Un giudice”, rivisitazione esilarante della storia di Selah Lively, un personaggio che nell’antologia di Spoon River di Masters in realtà non è un nano, ma è alto 1.57, il cantautore genovese utilizza un’iperbole funzionale alla sua composizione, raccontando la parabola di un nano oggetto di ogni maldicenza, ma anche corteggiato dalle donne per via della credenza secondo cui quelli come lui sarebbero “i più forniti della virtù meno apparente, fra tutte le virtù la più indecente”, e quando riesce a diventare giudice, finalmente si vendica, anche se il testo si conclude con un riferimento a Dio, unico vero giudice.
Stretto tra due dischi fondamentali come “La buona novella” e “Storia di un impiegato”, “Non al denaro, non all’amore né al cielo” non risiede al vertice della produzione deandreiana, ma si rivela opera gradevole e intellettualmente stimolante, spingendo alla riscoperta di una tradizione letteraria alla quale aveva fortemente contribuito anche Fernanda Pivano, traduttrice e scrittrice che ha fatto conoscere in Italia la letteratura americana e che ha tradotto proprio “l’Antologia di Spoon River” da cui trae ispirazione l’album.
Ma anche la politica reclama la sua parte, in Italia, sono gli anni caldi della contestazione e dello scontro sociale, De André, che si è sempre professato anarchico, fa i conti con la tentazione eversiva in “Storia di un impiegato” (1973), uno dei suoi album più belli e controversi.
Il disco, scritto assieme a Bentivoglio, narra la vicenda di un travet che, sull’onda dei moti del Maggio Francese, si lascia contagiare dal fuoco rivoluzionario, è una cupa profezia sulla degenerazione della contestazione in terrorismo che, di lì a poco, infetterà la società italiana.
Mai così crudo e realistico, De André ricorre a un linguaggio moderno che, come scrive Roberto Dané nell’introduzione, “si stacca dalla forma di racconto per approdare a immagini di tipo psicologico fino a figure oniriche di stampo reichiano”.
Tutto nasce dall’ascolto di una canzone del Maggio Francese e da un verso, che è una chiamata al riarmo morale (e non solo): “Per quanto voi vi crediate assolti- Siete lo stesso coinvolti” (“Canzone del maggio”). L’impiegato così ripensa agli “ingrati del benessere francese” che “cantavano il disordine dei sogni” e si sente avvampare dall’ansia di una rivolta ormai ineludibile: è “La bomba in testa”, la splendida canzone-manifesto dell’album, drammatica e trascinante con la sua tensione palpabile, costruita su bruschi cambi di ritmo e sul crescendo inesorabile dei pensieri nella mente del protagonista.
Nel conflitto lacerante tra l’ansia di cambiamento e le sirene lugubri della violenza, l’impiegato che “contava i denti ai francobolli” si troverà soggiogato dalle pulsioni eversive, al punto da abbandonare le sue paure e le sue certezze quotidiane per scegliere il tritolo, come poi canterà nell’ode dinamitarda de “Il bombarolo”.
E poiché il potere non ha volto, sarà proprio “Al ballo mascherato” che il tritolo dovrà colpire quelle maschere del declino occidentale: “un Cristo drogato da troppe sconfitte”, “Maria ignorata da un Edipo ormai scaltro“, un Dante invidioso che spia nel letto degli amanti Paolo e Francesca.
La bomba è imparziale, perché non fa distinzioni, spazzando via tutto, incluso un padre che “inciampa nella sua autorità” e una madre che “dovrebbe accettare la bomba con serenità” poiché “Il martirio è il suo mestiere, la sua vanità”
Ma il sogno dell’impiegato prosegue e gli rivela anche le conseguenze del suo folle gesto: dovrà non solo pagare con il carcere, ma anche rendersi conto che altro non è stato che un burattino, un ingranaggio del potere la cui vita è stata controllata e manipolata fin dall’inizio.
Così ne “La canzone del padre” il sogno si trasforma definitivamente in incubo, sulle note stridenti degli archi, sul cupo rimbombo del basso e su un piano zoppicante, per ammonire sulla distruzione di quella folle e criminale utopia (“assoluzione e delitto, lo stesso movente”). All’impiegato non resterà che prendere atto amaramente della sua vita in dissoluzione (“Questi i sogni che non fanno svegliare”) non prima di aver rivolto al giudice la promessa di un’atroce vendetta: una bomba vera, che non sia più solo un sogno.
Ma anche quel piano fallirà miseramente e anche la donna che lo ama finirà così per prenderne le distanze, sulle pagine dei giornali: la struggente “Verranno a chiederti del nostro amore”, scandita dai rabbiosi rintocchi del piano, non è nient’altro che una lettera dal carcere, in cui il protagonista rivolge all’amata una dolente confessione sulla loro incomunicabilità (“Non sono riuscito a cambiarti- Non mi hai cambiato, lo sai”), oltre a una serie di raccomandazioni sul suo futuro, augurandole di prendere in mano la sua vita (“Continuerai a farti scegliere- O finalmente sceglierai?”), con tanto di celebre strofa finale: “Andrai a vivere con Alice che si fa il whisky distillando fiori – o con un Casanova che ti promette di presentarti ai genitori- o resterai più semplicemente- dove un attimo vale un altro- senza chiederti come mai”, una canzone che in realtà De André ha dedicato alla prima moglie Puny, come poi rivelato dal figlio Cristiano.
La storia si chiude in carcere ed è proprio dietro le sbarre che, paradossalmente, il protagonista ritrova la serenità e la solidarietà umana tra pari che ha sempre ricercato: “E adesso imparo un sacco di cose in mezzo agli altri vestiti uguali- Tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali- Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane-Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame” (“Nella mia ora di libertà”).
Con “Storia di un impiegato” De André, forse inconsapevolmente, scende nell’agone politico, l’estrema sinistra gli dà del qualunquista; la destra lo accusa di propaganda eversiva, ma lui si ostina a ripetere: “Il mio identikit politico è quello di un libertario, tollerante. Se poi anarchico l’hanno fatto diventare un termine orrendo… In realtà vuol dire solo che uno pensa di essere abbastanza civile da riuscire a governarsi per conto proprio, attribuendo agli altri, con fiducia, le stesse capacità”.
Un anno dopo, “Canzoni” (1974) segna il ritorno a uno stile più pacato e a un linguaggio più letterario, grazie a una manciata di cover di Dylan ,”Desolation Row”, Cohen “Suzanne” e “Giovanna d’Arco”, ma soprattutto Brassens, che fa la parte del leone con il recitato di “Morire per delle idee” e con la splendida ballata “Le Passanti”, tratta a sua volta da un poesia di Antoine Pol, in un’ode commossa al rimpianto delle occasioni perdute, con quel bellissimo verso finale: “Nei momenti di solitudine, quando il rimpianto diventa abitudine, una maniera di viversi insieme, si rimpiangono le labbra assenti di tutte le belle passanti, che non siamo riusciti a trattenere”.
Il successivo “Volume VIII” (1975), nato dall’incontro con Francesco De Gregori, segna un’altra tappa nell’evoluzione della canzone italiana degli anni Settanta, nel segno di una “poesia cantata”, impreziosita da un linguaggio sempre più ricercato.
De Gregori porta il suo tipico stile da fiaba metropolitana, De André accentua, esasperandolo, l’uso di figure retoriche, fantasie e nonsense, sono canzoni costruite quasi solo sui versi, in cui la musica non ha quasi altro senso se non quello di suggerire il “tono” da seguire.
Uno stile che tocca il suo vertice nella struggente “Amico fragile”, metafora di chi si oppone per coltivare i suoi sogni solitari, costruita su una chitarra folk spoglia alla Cohen, su quattro accordi a giro e un ritornello che colpisce al cuore, è la canzone che De André ha sempre considerato il suo vero identikit: “È la più importante che abbia mai scritto, sicuramente quella che più mi appartiene, spiegherà. È un pezzo della mia vita: ho raccontato un artista che sa di essere utile agli altri, eppure fallisce il suo compito quando la gente non si rende più conto di avere bisogno degli artisti”.
Nel testo, offuscato dall’alcol (“evaporato in una nuvola rossa”) e al chiuso di una stanza (“in una delle molte feritoie della notte“), Fabrizio racconta con stile caustico di un party borghese tossico a cui partecipò, con famiglie che lasciavano i propri figli in balia del destino, persi nella droga (“Lo sa che io ho perduto due figli-Signora lei è una donna piuttosto distratta”) e personaggi aridi e insensibili, ai cui occhi un artista era soltanto un giullare (“È bello che dove finiscano le dita debba in qualche modo incominciare una chitarra“).
Un contesto dal quale prende le distanze, rivendicando il suo anelito di libertà (“E poi seduto in mezzo ai vostri arrivederci- Mi sentivo meno stanco di voi… Potevo chiedervi come si chiama il vostro cane-Il mio è un po’ di tempo che si chiama Libero… Potevo attraversare litri e litri di corallo- Per raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci“).
Altra prodezza del disco è la non meno icastica “Giugno ’73”, epigrafe del matrimonio borghese e delle sue convenzioni, ma che in realtà nasconde una vicenda autobiografica: è rivolta infatti a un personaggio reale, una certa Roberta, con cui Fabrizio aveva avuto una relazione intensa e importante fra la prima e la seconda moglie, con quel suo celebre verso finale toccante “Io mi dico è stato meglio lasciarci- Che non esserci mai incontrati”.
La musica di De André si fa più ricca e sostenuta con l’approdo nella Rimini (1978) felliniana dei “Vitelloni”. L’album, composto insieme a Massimo Bubola, tratteggia un affresco malinconico della riviera romagnola, intriso di salsedine e di nostalgia. Ne è il manifesto proprio la title track, che apre il sipario su una galleria di personaggi disillusi e traditi dalla vita, come Teresa, che “ha gli occhi secchi e “guarda verso il mare, per lei figlia di pirati penso che sia normale”, ma lo sguardo, oltre gli ombrelloni, arriva a scoperchiare tutte le ferite di un’esistenza bruciata.
A dispetto dell’andatura incalzante, è ancor più tragica la filastrocca di “Andrea” (uno dei capolavori assoluti di Bubola), parabola amara di un amore omosessuale “ucciso sui monti di Trento dalla mitraglia“, che spinge il protagonista a suicidarsi gettandosi in un pozzo dopo aver appreso la notizia della morte del suo amato “riccioli neri” (“signore il pozzo è profondo- più fondo del fondo degli occhi della notte del pianto… mi basta che sia più profondo di me“).
Dolente e magica è anche “Sally”, che racconta la fine dell’infanzia e dell’innocenza, passando da paesaggi da fiaba con tamburelli e pesciolini d’oro a realtà di eroina e coltelli in mezzo ai seni fino a esaurire le sue speranze nei bassifondi presso il re dei topi.
A risollevare gli animi è la vivace “Volta la carta”, sorta di fiaba folk d’impronta celtica costruita su una raffica di immagini che ruotano attorno alla protagonista Angiolina che “alle sei di mattina s’intreccia i capelli con foglie d’ortica- ha una collana di ossi di pesca- la gira tre volte intorno alle dita”, mentre “Coda di lupo” torna a gettare uno sguardo cupo sull’attualità degli anni di piombo, tra contestazione e indiani metropolitani.
C’è spazio anche per un riadattamento della dylaniana “Romance in Durango” (“Avventura a Durango“, per la quale il cantautore americano si complimentò di persona con De André), per un divertente scioglilingua in sardo (“Zirichiltaggia“) e per l’onirica “Parlando del naufragio della London Valour” in cui si rincorrono personaggi e riflessioni, puntellati da una chitarra elettrica. A chiudere, sempre nel segno della malinconia, arriva “Folaghe”, che resterà l’unico pezzo strumentale della carriera di De André.
Fa da suggello all’uscita dell’album un memorabile tour con la Pfm, testimoniato da due album, Fabrizio De André in concerto -Arrangiamenti PFM (1979) e Fabrizio De André in concerto – Arrangiamenti PFM Vol. 2º (1980), nei quali i classici del cantautore genovese, magistralmente riarrangiati in chiave rock, trovano nuova linfa.
Il progetto di arrangiare le canzoni spoglie di De André in chiave rock colpisce molto la critica e il pubblico, ci sarà anche chi storcerà il naso, accusandolo di aver ceduto a un compromesso commerciale suonando con un gruppo rock, in un surreale processo fuori tempo massimo sulla falsariga di quello che dieci anni prima aveva dovuto subire Dylan dal tribunale dei puristi del folk, allorché iniziò a utilizzare strumenti elettrici.
In realtà, il sodalizio tra De André e la band risaliva già agli anni 60, quando Mussida, Di Cioccio e compagni, che si facevano chiamare ancora Quelli, avevano suonato nell’album “La buona novella”, e il rapporto non finirà certo qui, visto che il violinista e polistrumentista Mauro Pagani, tra i membri originari della Pfm, diventerà anni dopo uno dei collaboratori più stretti di De André (a partire dalla realizzazione di Crêuza de mä, 1984), mentre gli stessi Mussida e Premoli prenderanno parte, in occasioni diverse, ai successivi lavori di studio del cantautore.
A tra pochissimo. SonoSoloParole.
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